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Messner dentro la montagna

L'ultima impresa del più grande alpinista del mondo è la costruzione di sei musei ad alta quota per celebrare la relazione tra l'uomo e la montagna. L'ultimo è il più spettacolare: una scheggia di cemento, progettata da Zaha Hadid, conficcata in cima a Plan de Corones. Lo ha raccontato sul prossimo numero di VIta Magazine

di Giuseppe Frangi

Il servizio di copertina del prossimo numero di Vita comprende un'intervista a Reinhold Messner, il più grande alpinista della storia, colui che ha scalato tutte le montagne più importanti e affascinanti del mondo, comprese le 14 vette sopra 8mila metri. A 70 anni si è lanciato in una nuova grande avventura: sette musei dedicati alla montagna. Un modo per raccontare a tutti «quel che accade quando l’uomo e la montagna si incontrano. Cosa sentiamo quando guardiamo una montagna. Cosa vediamo nell’immagine di una montagna».

A questo “qualcosa” ha dato la forma di sei musei, o come lui li chiama di «un mosaico di musei», disseminati in luoghi fantastici sul territorio del suo Alto Adige, o del suo Sud Tirolo (ma un museo ha sconfinato nelle Dolomiti Bellunesi). L’ultimo tassello di questo grande sogno è stato inaugurato a inizio estate nel luogo forse più bello agli occhi di Reinhold, portando a termine l’operazione più audace. A Plan de Corones, tra val Badia, val Pusteria e Valdaora, sul più spettacolare belvedere montano dell’Alto Adige, una scheggia di cemento armato, s’infila dentro la montagna, come una gigantesca meteora incastonata nella terra. L’ha progettata Zaha Hadid, l’architetta più avveniristica oggi sulla scena. «Le avevo chiesto di mettere il museo sotto terra», racconta Messner. «E poi aprire le finestre nelle quattro direzioni, in modo che il fuori entrasse dentro, dentro il cuore della montagna». Le vetrate del museo restituiscono le immagini dell’infanzia di Reinhold («compreso il Pilastro di mezzo del Sasso di Monte Croce che ritengo l’ascensione più difficile della mia vita»). Da Plan de Corones, lo sguardo spazia nelle quattro direzioni, spingendosi sino alle Dolomiti di Linz a est, all’Ortles a ovest, alla Marmolada a sud e alle cime di Zittertal a nord. Insomma uno spettacolo che dà ragione al nome di questo luogo: Corones in ladino sta per “corona”, un pianoro appunto “incoronato” a 360 gradi dalle montagne. Con la sua voce calma, forte di certezze e di passioni che il tempo non ha affatto scalfito, Messner ha risposto alle domande del numero di Vita in edicola da venerdì 4 settembre, raccontando i suoi sogni di ieri, ma soprattutto di oggi.

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Partiamo dal grande sogno dei Messner Mountain Museum. L’alpinismo è avventura, il museo invece rischia un’immagine un po’ fossilizzante…
I miei musei sono pieni di sorprese proprio come la montagna. Chi li visita senza preconcetti conosce, tocca con mano, avverte quel che accade quando l’uomo e la montagna si incontrano, passo dopo passo. Sono luoghi sempre in trasformazione. E non facciamo ricorso a strumentazioni tecnologiche per stupire. Per raccontare la montagna bisogna far capire che l’alpinismo è innanzitutto un’esperienza del corpo. Per questo i musei devono rendere questa concretezza. Non voglio fare pedagogia, ma raccontare della natura della montagna e della natura dell’uomo. Voglio condensare le esperienze di chi come me ha vissuto un continuo confronto tra sé e la montagna. In questo mi aiutano le immagini, le reliquie raccolte nelle mie missioni, le testimonianze. E mi aiuta in particolare l’arte.

A proposito di reliquie, a Plan de Corones ne è esposta una a cui lei è molto legato, la “piccozzetta” di Paul Preuss…
Sì, perché è l’oggetto da cui poi è scaturita l’idea dei Messner Mountain Museum. Mi venne donata da un’anziana signora di Vienna. Era l’attrezzo usato da quel geniale alpinista, caduto nel 1913 (precipitò a 27 anni dalla parete Nord del Mandlkogel che stava salendo in libera e da solo, ndr). La signora era stata un amore giovanile di Preuss, e dandomi la “piccozzetta” mi pregò di far sì che il grande pubblico potesse ammirarla. Quell’oggetto prezioso e quella richiesta mi hanno fatto scattare l’idea del mosaico di musei.

L'intervista continua dopo l'immagine

«Ciascuno cresce solo se sognato». È bellissima questa frase di Danilo Dolci, che spiega perfettamente il senso del servizio di copertina del nuovo numero di Vita, in edicola da venerdì 4 settembre. Quel “ciascuno” riguarda le persone, noi, perché tutti siamo stati sognati, o da chi ci ha voluti al mondo o da chi ha immaginato cose grandi per la nostra vita. Ma al posto di “ciascuno” potremmo anche mettere “ogni cosa”. Ogni impresa, ogni avventura dell’uomo è stata infatti prima, in qualche modo, sognata. E questo accade in ogni ambito della vita. Abbiamo chiesto ad Olimpia Zagnoli di disegnarci questa copertina che recita “Butta i sogni fuori dalla testa”. Un invito, che le storie che abbiamo raccolto su questo numero vogliono rendere del tutto persuasivo. Perché chi ha l’energia di assecondare i propri sogni rende più felice il mondo. Accade così ai ragazzi coinvolti dalla “non-scuola” di Marco Martinelli, ai cittadini di Matera, che con un sindaco come Raffaello De Ruggieri possono davvero sognare di essere i primi “abitanti culturali” d’Italia. E c’è un sogno nella testa di ciascuno dei 500 imprenditori sociali che dal 10 settembre si trovano a Riva del Garda per l’appuntamento annuale organizzato da Iris Network. Un sogno “da buttare fuori” nell’arena della vita.

Ad esempio Plan de Corones come l’ha pensato?
Ogni museo ha un suo tema. E questo ha per tema l’alpinismo estremo, i trionfi e le tragedie che si sono consumati sulle pareti delle più famose montagne. Rappresenta le imprese di noi alpinisti senza censurare gli aspetti contraddittori che le imprese presentano. Al centro non c’è il racconto dei primati ottenuti, bensì la storia dei personaggi dell’alpinismo, i pionieri che hanno osato “la transizione aurea” dall’idea, dal sogno al fare, prescindendo dal perché. Ma alla fine il museo vuole essere soprattutto uno spazio esperienziale, un luogo del silenzio e della decelerazione che offre panorami indimenticabili, uno spazio in cui ritirarsi e lasciare che la percezione si apra verso l’alto, verso l’oltre. Per me è cruciale quello che accade nell’animo dei visitatori e tra i visitatori. Non voglio offrire orientamenti definitivi: la prospettiva da cui guardare la storia e i punti chiave dell’alpinismo, si moltiplica per quanti sono i visitatori. Così la montagna diventa qualcosa di vivo.

Plan de Corones è anche un luogo di consumo della montagna, con impianti sciistici molto frequentati e molto moderni. Come si conciliano queste due dimensioni, quella della decelerazione e quella dell’agonismo?
Credo che la risposta migliore a questa domanda sia nel panorama che si vede da Plan de Corones. Perché non c’è solo la “corona” di vette. C’è anche la montagna bassa, straordinariamente ordinata, coltivata, curata. Una montagna che dà ancora da mangiare alla sua gente. Ecco, credo che nella mia terra siamo riusciti a creare un’armonia tra queste dimensioni che sembrano contraddittorie. Lo sci, con tutte le sue infrastrutture, non ha lasciato il deserto attorno, ma ha permesso di creare quel flusso economico grazie al quale oggi nessuna malga viene abbandonata, e non c’è centimetro di montagna che non venga tenuto con grande cura. Non sempre è così. Se si va in Val d’Aosta, ad esempio, questa armonia è stata perduta. C’è stato un approccio solo aggressivo alla montagna e con tristezza vediamo centinaia di case costruite con i sassi che sono state lasciate crollare poco a poco.

In Val d’Aosta non sono stati capaci di sognare…
Noi qui non siamo meglio o peggio di altri, ma abbiamo provato a sognare, senza chiudere il territorio, ma tenendolo aperto a tutte le esigenze e le domande di un mondo globalizzato…

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