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È possibile restare cristiani, diventando buddhisti?

«L’ex prete cattolico Paul Knitter ha cercato di ovviare al vuoto di una teoria della religione ridotta a imperativo categorico, per mezzo di una nuova sintesi tra Asia e Europa ben più concreta e più ricca». Così si esprimeva l'allora cardinale Joseph Ratzinger. L'ex religioso richiamato dalle sue parole era Paul Knitter, uno dei più controversi, ma fecondi e influenti teologi cattolici dei nostri anni, accusato di essersi spinto troppo in là nel suo preferire l'ortoprassi, il retto agire, al dogma. Accostatosi al buddhismo, Knitter coglie affinità e differenza tra le due fedi viventi

di Marco Dotti

«Credo davvero a quello che dico di credere, o a quello che dovrei credere da membro della comunità cristiana? Non sto parlando delle dottrine etiche proprie di Gesù e della testimonianza neotestamentaria. La visione evangelica di una società fondata su onestà, giustizia e compassione ha, infatti, un senso altissimo e urgente. Né ho grandi problemi legati alle controverse dottrine etiche e pratiche della mia chiesa».[1]

Con queste parole, il teologo cattolico Paul Knitter, che non ha mai lesinato critiche anche sul piano etico alla “sua” chiesa,[2] esplicita e al tempo stesso non sottrae a un livello esperienziale più profondo una questione che egli stesso non esita a definire “cruciale”.

Formatosi e laureatosi nel 1966 alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, addottoratosi nel 1972 in uno degli “epicentri” della teologia liberale, Marburgo, Knitter è stato sacerdote cattolico dal 1966 al 1975, quando si è sposato e, al contempo, si è avvicinato al buddhismo praticato dalla moglie, ma senza una conversione propriamente detta (anche se "ho preso il cartellino", racconta sul finale del lavoro Knitter, raccontando la sua adezione allo dzogchen).

Il contatto col buddhismo mahāyāna ha qui più il senso di un’apertura, che di un passaggio irreversibile o esclusivo. Non a caso, Knitter usa spesso l’immagine della frontiera.

Una frontiera che mette in contatto due sponde, più che dividerle e che prevede un “ritorno a casa”. Anche se il ritorno a casa non è mai un “semplice” ritorno a casa: resta l’esperienza dell’Altro, l’apertura del contatto, del confronto e dell’attraversamento non unidirezionale della frontiera (il termine “frontiera” – anziché soglia o simili – definisce in Knitter anche ciò che inevitabilmente e talvolta sottilmente distanzia, non solo ciò che unisce) .

Impegnato anche sul piano delle questioni sociali (le «dottrine etiche proprie di Gesù», la «visione evangelica della società»), in altri suoi lavori l’ex professore della Xavier University di Cincinnati, oggi docente allo Union Theological Seminary di New York, ha affrontato la questione della povertà e delle ingiustizie, oltre che i grandi dilemmi etici riletti nella prospettiva del dialogo libero ma serrato, del pluralismo e del confronto interreligioso. «Il solo modo in cui riesco ad essere religioso è essendo interreligioso», non si stanca di rimarcare Paul Knitter.[3]

La crucialità di questo essere integralmente interreligioso, che Knitter non esita a qualificare nei termini di “lotta interiore”, va dritta al cuore, al “che cosa” e non si ferma alle modalità operative della propria fede. Un “che cosa” che, osserva Knitter, «può diventare tanto incerto che mi trovo a chiedermi, in tutta onestà, se creda o meno in assoluto».[4]

Per Knitter, in questo contesto – il contesto di un dialogo tra cristianesimo e buddhismo del “Grande Veicolo” – e nelle dinamiche di un lavoro che è complessivamente anche “testimonianza” in presa diretta e non opera freddamente analitica, che cosa significa “lottare”?

La domanda di Knitter ha qui il senso di un complessivo rilancio della questione del credere in un contesto post-moderno.

In Without Buddha I Could Not Be a Christian, libro edito in prima edizione per i tipi editoriali di ONEWorld, nel 1998, ristampato più volte e tradotto in italiano nel 2011 dalla seconda edizione in lingua inglese del 2009, l’Autore è chiaro:

Quando dico che sto lottando – leggiamo nelle pagine della Prefazione – intendo riferirmi ai combattimenti interiori che toccano le cose grosse, ovvero quelle che valgono per tutti i cristiani, non soltanto per la mia personale comunità cattolica. Sto infatti parlando degli elementi fondamentali del Credo (…). Sto parlando di “Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra”, che da essere personale è attivo nella storia e nella nostra vita individuale (…). Credo davvero, o meglio, sono in grado di credere, quello che tali enunciati dichiarano e professano? Anche quando non li prendo alla lettera, anche quando ricordo a me stesso che sono simboli che devono necessariamente essere interpretati con serietà e attenzione ma non sempre letteralmente, devo comunque chiedermi: una volta tolti gli strati letterali, qual è il significato più intimo e profondo che posso affermare?. [5]

Le “cose grosse” che “valgono per tutti i cristiani”, indipendentemente dalla comunità personale, gli “elementi fondamentali” del Credo e del credere, i “simboli” e la loro realtà che “chiama” alla pratica sono gli argomenti toccati da Paul Knitter in Senza Buddha non potrei essere cristiano. Il lavoro si presenta nella veste e nella forma di una personale riflessione su un passaggio vitale nella sua esperienza di vita e di fede, ma sa uscire dal piano meramente biografico – che rappresenta, in questo caso, una sorta di “a tu per tu” con le cose e col lettore, al quale è offerto un ampio ventaglio di problematiche e tematiche interreligiose e anche una sottile riflessione sul tema del dialogo e il reciproco arricchimento tra culture.

Knitter non ha trovato un “altrove”, né ha ceduto a una forma di sincretismo. Ha posto le domande che riteneva giusto porre (una sorta di resa dei conti con il tomismo e la teo-logica) e ha cercato, fin là dove poteva guardare, le risposte a queste domande. Domande che riguardano Dio quale Altro trascendente, quale Altro personale e quale Altro misterioso nel loro rapporto con il creato, la dualità e la non-dualità, con la persona e la personalità, con la sofferenza e il problema del Male.

In questo senso, il libro è anche un libro di incontri concreti, dove riaffiorano figure – da Lévinas a Panikkar, solo a titolo di esempio – che hanno impresso un forte segno alla riflessione su ciò che Paul Knitter chiama “connecting Spirit”, traducendo così il termine pali “anicca” (in sanscrito: “anitya”), impermanenza.

Il buddhismo nella versione della Terra Pura o amidismo esperita da Knitter si propone come un delicato equilibrio di saggezza (“prajna”) e compassione (“karuna”), come un fattore di disvelamento, non di dissoluzione – come ingenuamente potrebbe far credere il termine dal concetto sfuggente “Nirvana”, presente in ogni capitolo del libro – dell’Altro. Inter-dipendiamo, perché impermanenti: la consapevolezza va di pari passo con la compassione, anche se, osserva l’Autore, una leggera consapevolezza alla prima è accordata dal buddhismo, laddove il cristianesimo accorda una prevalenza alla seconda.

Non stupisce allora il richiamo fatto da Knitter a Emmanuel Lévinas. Il filosofo ebreo invitava ad approcciarsi a Dio più nel lessico dell’azione, che in quello dell’essere. La più intima realtà del divino, chiosa Knitter, è esprimibile più con un verbo, che con un sostantivo.

Questa tematica – o, meglio, queste tematiche – sono distillate da Knitter nel crogiuolo di quella lotta e dell’urgenza racchiuse nella domanda sulle “cose grosse”: credo in ciò in cui credo?

L’impermanenza indica il lato transeunte, perituro di ogni essere e di ogni fenomeno. In termini “occidentali”, potremmo dire che l’impermanenza è per i fenomeni ciò che la “fraglilità” è per gli esseri, ma la fragilità di ogni essere costituisce, appunto, la sua inevitabile necessità di communitas, di legame, di interconnessione spirituale.

Proprio la riflessione su questo “Connecting Spirit” (o meglio su «God as the "Connecting Spirit"») è una delle chiavi che aprono a Knitter la possibilità di “tornare”, dopo aver varcato la frontiera tra religioni e culture.

Scrive infatti l’Autore: «Il simbolo teologico che ancora mi parla, e con maggior potenza, dopo avere attraversato la frontiera del buddhismo, è Dio quale Spirito, quale Spirito connettivo».[6] Questo Spirito è ciò che (ci) chiama l’un l’altro alla relazione: «[It] calls us into relationship with one another and all of creation».

L’interconnessione è in un certo senso la chiave – una delle chiavi – di volta di questo approccio che rimanda inevitabilmente alla questione della teologia pluralista o della reciprocità avanzata in altri lavori da Knitter.[7]

Il dialogo, osserva Paul Knitter:

è un movimento complesso di “tanto-quanto”: tanto parlare quanto ascoltare, tanto insegnare quanto apprendere, tanto avere le idee chiare quanto mettere in discussione, tanto mostrare fermezza, quanto rivelare flessibilità.[8]

Note


[1] P. Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano, traduzione di P. Zanna, Roma, Fazi Editore, 2011, p. XXXIV

[2] Knitter figura tra i novantasette teologi che, nel 1984, hanno firmato una dichiarazione su pluralismo e aborto (il Catholic Statement on Pluralism and Abortion), criticando la posizione assunta dal dibattito all’interno della Chiesa cattolica in materia.

[3] P. Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano, cit., p. 287.

[4] P. Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano, cit., p. XXXV.

[5] Ibidem.

[6] P. Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano, cit., p. 56.

[7] Per una riflessione sul paradigma pluralistico e la sua emergenza, cfr. il numero monografico di Concilium, n. 1 (2007).

[8] P. Knitter, El diálogo interreligioso, Conferenza all’Universidad Javeriana, Bogotá, Colombia, 25 agosto 2011: «El diálogo es un movimiento complejo de “tanto-como”: tanto hablar como escuchar, tanto enseñar como aprender, tanto claridad como cuestionamiento, tanto firmeza como flexibilidad».


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