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Svetlana Alexievich, premio alla sofferenza e al coraggio del popolo di Chernobyl

La scrittrice e giornalista bielorussa Svetlana Aleksievič, classe 1948, ha vinto il Nobel per la Letteratura 2015. È stata scelta per la «sua polifonica scrittura nel raccontare un monumento alla sofferenza e al coraggio dei nostri tempi». La gioia di Raffaele Iosa e Francesco Mennillo, che hanno conosciuto e amato la Bielorussia attraverso i 500mila bambini accolti in Italia

di Sara De Carli

La scrittrice e giornalista bielorussa Svetlana Aleksievič, classe 1948, ha vinto il Nobel per la Letteratura 2015. La motivazione dell’Accademia Svedese dice che è stata scelta per la «sua polifonica scrittura nel raccontare un monumento alla sofferenza e al coraggio dei nostri tempi». Presentando il suo libro più celebre, è Preghiera per Černobyl (qui potete ascoltarne alcuni brani letti dall’attore Oliviero Corbetta per il Progetto Humus della onlus Mondo in Cammino), scritto dieci anni dopo l’incidente nucleare, alla domanda "di cosa parla il libro?", la Aleksievič rispondeva: «Questo libro non parla di Černobyl ma del mondo di Černobyl. Proprio di ciò che conosciamo poco o nulla… La ricostruzione non degli avvenimenti, ma dei sentimenti». Per questo abbiamo chiamato due persone che in Italia hanno fatto lo stesso, ricostruire i sentimenti dei tantissimi bambini arrivati qui in Italia dopo il disastro di Černobyl. Sono Raffaele Iosa e Francesco Mennillo, entrambi padri adottivi di ragazzi bielorussi.

«È fantastico», commenta Raffaele Iosa, già maestro, direttore didattico, ispettore scolastico e presidente di AVIB, la Federazione delle Associazioni di volontariato Italiane per la Bielorussia (più di mezzo milione di bambini bielorussi sono stati accolti in Italia a seguito della tragedia di Černobyl per periodi di risanamento e 1.194 sono quelli adottati da famiglie italiane fra il 2000 e il 2013). Iosa balza dalla sedia e dalla libreria prende Tempo di seconda mano, cercando una frase che vuole assolutamente citare. Intanto parla come un fiume in piena. «Questo ultimo libro è straordinario, già il titolo è bellissimo, è il canto della memoria collettiva del popolo ex sovietico». Parlano decine e decine persone comuni – contadini, operai, studenti, maestre – che raccontano «la disillusione e la sofferenza, la fatica di attraversare una transizione lunga trent’anni, che già a dirlo si capisce come sia una fase storica piena di contraddizioni. Lei è riuscita a dar voce alla gente comune, ha realizzato un grande mosaico di umanità, un grande racconto collettivo attraverso cui un popolo si confronta con il tema della memoria e della ricostruzione della propria identità».

«Černobyl ha rappresentato per i sovietici il crollo di un mito, che si chiamava Yuri Gagarin», spiega Iosa. «Non è stata solo una catastrofe ambientale, sanitaria, di vite umane perdute, ma anche una catastrofe culturale e di identità. Qui abbiamo un popolo che si racconta e raccontandosi fa i conti con l’esperienza del fallimento. Non è però solo una cosa emotiva, queste persone cercano anche una risposta cognitiva, per questo la Alexievich in patria è un personaggio scomodo, perché mantenere viva la memoria, non nel senso di celebrare con retorica il passato, ma di fare i conti con la verità, è qualcosa di scomodo ma necessario», continua Iosa. È qui che cita la frase che cercava fin dall’inizio: «La dice una maestra. “La sofferenza è stata la nostra via alla conoscenza. Gli occidentali ci appaiono sciocchi perché non hanno sofferto quanto noi, hanno una medicina per ogni foruncolo. Ho provato a parlare con i miei studenti di questo. I miei studenti mi hanno riso in faccia”». È un po' come se il Nobel lo avesse vinto un popolo intero, per la sua sofferenza e il suo coraggio.

«Non conosco bene l'opera di questa scrittrice, ma conosco Preghiera per Černobyl», dice Francesco Mennillo, Presidente del Coordinamento famiglie adottanti in Bielorussia. «È una presa diretta sugli eventi successivi allo scoppio del reattore di Černobyl. È il punto di vista della gente, di un popolo fiero che impari ad amare aprendo la tua porta ad un bambino proveniente da quelle zone. Ti fa comprendere l'umiltà e la grandezza di un popolo che si è fatto carico di un grave problema di gestione di un fallout radioattivo nel silenzio assoluto e che racconta le sofferenze subite a causa di un governo come quello dell'ex Unione Sovietica che si sentiva infallibile anche di fronte alle leggi della fisica. Ne consiglio la lettura non solo per conoscere l'eroismo dei liquidatori, ma anche perché è uno spaccato di vita vissuta di quelle genti e dei loro sentimenti. È un modo per iniziare ad amare quelle terre ancora prima di partire per andare a conoscere quei villaggi da cui giungono tante migliaia di bambini bielorussi. Questo è del resto il percorso che hanno deciso di fare tutte le famiglie accoglienti: affidarsi, accogliere nel silenzio senza chiedersi troppi perché e accrescere l'amore reciproco, senza per questo cercare vetrine dove sbandierare le proprie gesta».

La Aleksievič scrive che «Černobyl' è il principale contenuto del loro mondo. Esso ha avvelenato ogni cosa dentro di loro, e anche attorno, e non solo la terra e l'acqua. Tutto il loro tempo. […] L'uomo d'oggi si trova sulla linea di rottura di due epoche… Si sono combinate due catastrofi: l'una sociale, è colato a picco sotto i nostri occhi l'enorme impero socialista e l'altra cosmica, Černobyl'. Due esplosioni globali»: per Mennillo «il punto di svolta però è che da una immane tragedia può nascere anche un evento che cambia il senso della storia. Italia e Bielorussia hanno portato avanti una rivoluzione che è di esempio a livello europeo, un'accoglienza che non chiude le porte, ma che genera fratellanza e supporto anche a distanza».

Foto di Daniel Roland/Getty Images, in occasione della consegna del “Peace Prize of the German Book Trade” nel 2013


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