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Corruttori del bene comune. Dialogo con Franco Ferrarotti

"Le agenzie di socializzazione primaria – la scuola, la famiglia – hanno alzato bandiera bianca, hanno abdicato e delegato la loro funzione fondamentale ai new media che, in particolare, sono mezzi di grande efficacia tecnica ma di assoluta insensibilità e irresponsabilità etica. Siamo di fronte a generazioni di persone informatissime, che sanno tutto, ma che rischiano di non capire quasi niente".

di Marco Dotti

Decano dei sociologi italiani, storico dell’industrializzazione e del sindacato, tra il 1958 e il 1963 Franco Ferrarotti ricoprì l’incarico di parlamentare nelle file di un movimento da sempre dimenticato dai manuali e anzitempo rimosso dalla memoria collettiva: Comunità di Adriano Olivetti.

«Già da alcuni anni – ci racconta Ferrarotti, oggi professore emerito alla Sapienza, che abbiamo incontrato nella sua casa romana – frequentavo Olivetti, del quale ero segretario particolare. Un giorno gli mostrai un testo tanto breve, ma ludico ed esemplare di un’autrice allora per nulla nota in Italia, Simone Weil. Il testo era apparso su una rivista francese di vago orientamento cattolico, La Table Ronde e quando glielo feci leggere, Olivetti ne fu entusiasta e mi chiese di tradurlo subito per il suo mensile, Comunità.

Gli Appunti per la soppressione dei partiti politici di questa giovane pensatrice, scomparsa a soli 34 anni nell’agosto del 1943, segnavano una svolta che forse solo oggi ci appare chiara in tutta la sua tragedia: i partiti, trasformatisi da mezzi in fini circondati una particolare idolatria, erano il sintomo di un disagio più profondo».

Non è possibile soddisfare l'esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità. Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell'anima umana. E' tra i più difficili da definire.

Simone Weil

Si sbaglierebbe considerando quello della Weil un testo d’occasione. In realtà, oltre che ai partiti,la Weilmuove una serie di critiche precise e fondamentali anche alla stampa, all’istruzione e a tutta quella politica – in senso lato – ben poco attenta alla “polis” e al bene comune. Un tema chiave, perla Weil, è quello dell’attenzione.

Non possiamo che constatare l’insorgere di una dilagante e diffusa incapacità di concentrarsi su un tema vivendolo fino in fondo. La società globale, oggi ben più che al tempo di Simone Weil (che, ricordiamolo, scriveva quel testo nel 1942), pone grandi problemi, ma al tempo stesso ha abdicato alla sua funzione, non fornendo strumenti per risolverli.

Le agenzie di socializzazione primaria – la scuola, la famiglia – hanno alzato bandiera bianca, hanno abdicato e delegato la loro funzione fondamentale ai new media che, in particolare, sono mezzi di grande efficacia tecnica ma di assoluta insensibilità e irresponsabilità etica. Siamo di fronte a generazioni di persone informatissime, che sanno tutto, ma che rischiano di non capire quasi niente.

Il chiasso interiore, la dispersività mettono a repentaglio ciò chela Weil chiamava attenzione. Attenzione per sé e, quindi, per l’altro da sé.

La Weil scriveva – e sapeva bene ciò di cui stava parlando che – «la vera attenzione è uno stato talmente difficile per l’uomo, talmente violento che ogni turbamento personale della sensibilità è sufficiente a ostacolarla». La simultaneità di operazioni, il multitasking, è presentata oggigiorno come arricchimento, mentre altro non è che la via regia all’imbecillimento collettivo.

Nel caso di Simone Weil siamo di fronte a un esempio concreto e straordinario di informazione focalizzata, attenta, e di rinuncia – rinuncia alla carriera, alla vita comoda: ricordiamo i suoi mesi di lavoro alla catena di montaggio della Renault o quelli come infermiera – in favore della concentrazione.

Oggi, politici, intellettuali, persone con carriere spianate e aperte di cosa difettano? Non di denaro, non di potere, non di mezzi. Ma di fini.

Perché senza un’attenzione e una concentrazione focalizzata si perdono di vista i fini del nostro vivere. Oggi assistiamo al massimo a rinunce in vista di altri accumuli in base a un concezione meramente orizzontale degli interessi. Simone Weil è invece un esempio luminoso di verticalità profonda.

Il denaro distrugge le radici ovunque penetra. Il denaro sradica, sostituendo ad ogni altro movente il desiderio di guadagno. Il denaro è un mezzo che diventa fine e vince facilmente tutti gli altri fini perché richiede uno sforzo di attenzione minimo. Il denaro è chiaro, il denaro "va da sé", il denaro…

Simone Weil

In che cosa consiste questa verticalità? In fondo,la Weil ha pubblicato pochissimo in vita, un solo libro… Il resto sono appunti e note apparse solo nel dopoguerra.

Proprio perché il suo non era un pensiero “interessato”,la Weil è riuscita a calarsi dalla filosofia al concreto, cogliendo una differenza essenziale che oggi a molti sfugge: quella tra razionalità formale o burocratica e razionalità sostanziale. La Weil ha capito quali sono le condizioni essenziali per accedere a una vera libertà, senza commettere l’errore di equiparare la spontaneità con l’autenticità. La spontaneità non crea nulla, se non il puro capriccio. L’autenticità e rigore, lavoro, concentrazione e attenzione, appunto. Leggendola Weil siamo agli antipodi, rispetto alla concezione corrente che apre alla novità solo perché tale, senza mai rivolgersi a ciò che è profondo.

Siamo nel completo ribaltamento dei mezzi in fini, che la Weil coglie nei partiti politici veri corruttori del bene comune e della volontà generale. I valori strumentali, oggi, vengono scambiati per valori finali. Anche i valori strumentali, beninteso, sono valori: pensiamo a internet o alle innovazioni tecnologiche e comunicative.

Ma a questi valori strumentali noi stiamo dando il nome e il senso di “finali”. Viviamo un’epoca di pervertimento, che potrebbe anche – nella sua logica profonda – annullare la presenza umana nel mondo. Non lo dico per catastrofismo, ma solo perché è implicito – e questola Weil lo scrive a chiare lettere –che in tale logica di ribaltamento l’uomo non è un fine, ma un mezzo…

Potremmo sostenere che il vero obbiettivo polemico del discorso della Weil sui partiti politici sia proprio questo ribaltamento e pervertimento della vita comune di cui i partiti allora come ora sono agenti – non gli unici, ma di certo tra i più efficaci

Si tratta di un testo che prevede la situazione di crisi mortale in cui stanno sprofondando i partiti, ma soprattutto prevede che la rappresentanza costituita dai partiti – e ritenuta dai “politologi” come fondamentale – e addirittura arriva a intuire la caduta e il passaggio da una rappresentanza politica formalmente – ma solo formalmente – ineccepibile, a una rappresentazione teatrale. Siccome la Weil intuisce l’origine giacobina del partito, capisce anche il rapporto tra totalitarismo e menzogna: il partito come pars pro toto. Parte “in nome”, ma mai “per conto” di tutti… Ecco il ribaltamento!

Viviamo una fase plumbea, una transizione senza tragedia, senza catarsi. Una transizione senza fine, perché non ha fini qualitativi, ma solo “quantità”, “quantità”, “quantità” e ancora “quantità”. I nostri ragazzi hanno una grande riserva di energia, che senza essere indirizzata verso uno scopo e verso un mezzo finale, rischia di implodere in suicidi differiti – droga, apatia, violenza.

Oggi abbiamo questa incredibile situazione di implosione statica, dove si può passare solo dallo stesso, dallo stesso. E in un mondo che si riempie la bocca di “novità”, mancano le vere novità, mancano i fini. Il denaro è un fine? I conti pubblici sono un fine? Il bilancio statale è un fine? Il successo personale è un fine? Ecco qui che tornano le voci profetiche.

Torna la straordinaria attualità di Simone Weil a dirci no, avete, abbiamo sbagliato tutto. Ricominciamo o, come scrive lei stessa, «inventiamoci qualcosa di nuovo».


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