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Cooperazione & Relazioni internazionali

Disertare l’Isis: 58 ex combattenti si raccontano

Si sono uniti all’Isis da tutto il mondo per combattere , ma sono rimasti delusi. Razzismo, corruzione e violenza gratuita contro altri musulmani tra i motivi che hanno portato alla fuga. Approfondire le loro storie potrebbe aiutare a fermare l’arruolamento di combattenti stranieri, dicono gli esperti.

di Donata Columbro

È stato raccontato molto degli uomini e delle donne che si uniscono al gruppo terroristico dello Stato islamico. Forse non abbastanza, dal momento che ancora non si riesce a fermare il flusso di persone che parte dall’Europa per combattere in Siria e in Iraq. Ma ancora meno si è detto di coloro che ad un certo punto del percorso cambiano idea e decidono di fuggire dalle milizie che con tanto entusiasmo avevano raggiunto. le loro storie potrebbero diventare la chiave per fermare il flusso di combattenti stranieri – solo dalla Francia quest’anno ci sono state l’80% di partenze in più rispetto al 2014 – divulgando su larga scala le false promesse dietro ciò che significa far parte dell’Isis e l’ipocrisia dietro la sua propaganda.

58 disertori e le loro storie

Uno studio dell’Icrs (International centre for the study of radicalization and political violence) ha raccolto 58 storie di uomini e donne che si erano uniti allo Stato Islamico, ma a partire da gennaio 2014 lo hanno abbandonato. Sono testimonianze di combattenti che hanno raccontato la loro esperienza su diversi canali televisivi e online, analizzate dall’Icrs per interpretarne la narrativa comune. Rappresentano una piccola frazione di tutti i combattenti “delusi” dalla propaganda e dalle azioni sul campo dell’Isis perché se di questi 58 abbiamo le storie, molti altri potrebbero essere fuggiti senza lasciare traccia per paura di rappresaglie da parte del gruppo terroristico.

Nei 58 casi, due terzi delle fughe sono avvenute nel 2015, un terzo nei mesi estivi. Arrivano dalla Siria (21), dall’Arabia Saudita (9), dall’Indonesia (4) e il resto da Francia, Germania, India, Iraq, Tunisia, Turchia, Regno Unito, Austria, Belgio, Egitto, Giordania, Svizzera, Libia e Tajikistan.

Le esperienze raccontate sono molto diverse tra loro. Non tutti dopo la fuga sono diventati ferventi sostenitori della democrazia liberale. Alcuni hanno commesso crimini. Tutti, ad un certo punto della loro vita, sono stati entusiasti sostenitori dell’organizzazione violenta e totalitaria che ha rivendicato gli ultimi attentati a Parigi, ma ad un certo punto hanno deciso di andarsene.

Quattro le ragioni principali per lasciare l’Isis:

1. In Siria l’Isis è più interessato a combattere i propri “simili”, i musulmani sunniti, che non il governo di Assad.
Questa è una delle critiche più diffuse. Troppa energia in Siria è dispersa nel combattere i ribelli piuttosto che rovesciare il regime di Assad, all’inizio una delle priorità dello Stato Islamico. Anzi, accusano i disertori, i ribelli sono oggetto di attacchi e violenze, perché i leader, ossessionati dalla presenza di spie e traditori tra le file dei combattenti, li vedono anche nei propri alleati. Questa non è la jihad che i combattenti dall’Europa si aspettavano.

2. L’isis è coinvolto in troppe atrocità contro i musulmani (sunniti)
La brutalità contro i civili innocenti non è condivisa da molti miliziani.. Si parla di uccisioni indiscriminate di ostaggi, sistematici raid nei villaggi e uccisioni dei combattenti da parte degli stessi comandanti che temono continue insurrezioni. Nessuno degli episodi menzionati come “troppo violenti” includeva brutalità commesse contro le minoranze, non considerate parte del proprio gruppo da proteggere. La violenza è vista come oltraggiosa soprattutto quando rivolta nei confronti di altri sunniti.

3. L’Isis è corrotto e anti-islamico
Molti disapprovano la condotta individuale di comandanti e leader. Tra i disertori siriani c’è chi critica i privilegi dati ai combattenti stranieri, per cui c’è giustificazione né basata sulla filosofia del gruppo né sui principi dell’islam in generale, si legge nel rapporto. Se molti sembrano disposti a tollerare le difficoltà della lotta in prima linea, trovavano invece inaccettabili le disuguaglianze e il razzismo tra i propri commilitoni. “Questa non è una guerra santa”, ha dichiarato un disertore dall’India, che i leader del gruppo ha obbligato al compito di pulire le latrine a causa del suo colore della pelle.

4. La vita sotto lo Stato islamico è dura e deludente
Chi ha espresso questo tipo di critica è un combattente che ha scelto di unirsi all’Isis per ragioni “egoistiche” e che ha realizzato presto che nessun tipo di bene lussuoso lo aspettava una volta unitosi alle file dello Stato islamico. Per altri la stessa esperienza dei combattimenti sul terreno non rispettava le loro aspettative di azione ed eroismo. Uno di loro si è riferito ai propri compiti come “noiosi” e si è lamentato per la mancanza di equipaggiamenti. Un altro ha sostento che i combattenti stranieri erano ‘sfruttati’ e usati come “carne da cannone”.

La narrativa di tutti e 58 gli ex combattenti denuncia le contraddizioni e le ipocrisie del gruppo terroristico. In modo univoco, i disertori denunciano il fatto che “lo Stato islamico non sta proteggendo i musulmani, li sta uccidendo”.

Chi sono i combattenti europei tra le fila delll’Isis

Il Belgio il paese da cui sono partiti più combattenti in proporzione alla popolazione, la Francia il paese che ha fornito più uomini – e donne – a livello numerico:


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