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Secondo welfare, un tesoretto per le imprese sociali

Sul piatto ci sono 250 miliardi di euro che potrebbero finanziare le nuove imprese sociali in investimenti o acquisti. L’analisi di Massimo Campedelli dell’istituto Dirpolis della Scuola Sant’Anna di Pisa

di Redazione

In Italia c'è un mondo non profit “dimenticato”, il cui budget, che vale almeno 250 miliardi di euro, potrebbe finanziare (in investimenti o acquisti) le nasciture imprese sociali. La “segnalazione” porta la firma di Massimo Campedelli, dell’Istituto Dirpolis della Scuola Sant’Anna di Pisa.

La somma è data da tre assi portanti dei cosiddetti secondo e terzo welfare: quella della previdenza complementare, quella della sanità integrativa e quella della spesa socio-sanitaria out of pocket.

Partiamo dal primo. La previdenza complementare (profit e non profit) è basata su quattro grandi strumenti:

  • – i fondi di categoria o territoriali, cd chiusi in quanto disponibili solo per i lavoratori (ed eventualmente i familiari) inquadrati secondo determinati contratti/accordi tra le parti sociali (nazionali, di settore o aziendali, ovvero gli accordi tra datori di lavoro e lavoratori appartenenti a un determinato territorio o area geografica);
  • – i piani pensionistici individuali (Pip), polizze assicurative sottoscritte privatamente;
  • – i fondi pensionistici cd aperti, mix dei precedenti, istituiti da banche, imprese di assicurazione, società di gestione del risparmio (Sgr) e società di intermediazione mobiliare (Sim) ;
  • – i fondi pensione preesistenti, così chiamati perché già istituiti prima del D. Leg. 124 del 1993, con cui per la prima volta è stata disciplinata la previdenza complementare .

Le risorse accumulate nel 2014 hanno raggiunto i 131 miliardi di euro, pari al 8,1% del Pil e al 3,3% delle attività finanziarie delle famiglie. Ad esse sono da aggiungere quelle gestite dalle casse previdenziali professionali di natura obbligatoria. Il totale complessivo dei patrimoni considerati, secondo la Covip – commissione di vigilanza – , nel 2014 è arrivato a quasi 200 miliardi di euro.

I non profit tendono a operare secondo logiche più prudenziali e/o nei mercati finanziari etici, al contrario dei profit che si comportano come un normale operatore finanziario che tende a massimizzare il risultato accettandone i rischi

«I fondi negoziali e le casse professionali obbligatorie sono enti non profit», nota Campedelli, «negli investimenti e nei costi gestionali ciò determina comportamenti diversificati dai gestori profit (assicurazioni), anche se non totalmente contrapposti. I non profit tendono a operare secondo logiche più prudenziali e/o nei mercati finanziari etici, al contrario dei profit che si comportano come un normale operatore finanziario che tende a massimizzare il risultato accettandone i rischi». Per questo il matrimonio fra questo tipo di fondi e le imprese sociali sarebbe quasi naturale.

La sanità integrativa, cugina della prima, si muove secondo logiche non di gestione del risparmio bensì di acquirente collettivo, ovvero di intermediazione – aggregazione e governo – della domanda. Ad essa afferiscono, con riconoscimento fiscale o meno a seconda delle coperture garantite, i fondi sanitari contrattuali (bilaterali), quelli aziendali, le società di mutuo soccorso. Tutti attori non profit.

La sua incidenza, in questo momento è alquanto limitata. Intermedia infatti non più di 4-5 mld dei 27 di spesa sanitaria privata; aggrega circa 5-6 milioni di lavoratori o soci (11 se si considerano i familiari coperti) e solo in minima parte gestisce direttamente le attività di intermediazione, affidandosi per lo più a service legati al mondo assicurativo privato. Nel mondo cooperativo, anche alla luce di quanto stabilito dal ccnl delle cooperative sociali, è iniziato un “percorso di avvicinamento” tra mutue e imprese sociali, importante per le potenzialità ma ancora marginale rispetto alle attività effettive. Con i fondi contrattuali e aziendali, e con i service, o non esistono rapporti o sono ancora da modellizzare.

In ogni caso sono circa 23 i miliardi di euro di spesa privata non intermediata (out of pocket, ovvero risorse tirate fuori direttamente dal portafoglio degli utenti), in un mercato molecolare frequentato da attori tra i più diversi (pensiamo alla sanità low cost) comunque poco interiorizzato dalle imprese sociali, sia sul versante economico quanto su quello sociale (è attualmente l'area a maggiore rischio di disuguaglianza di accesso sanitario presente nel paese; leggi: rinuncia alle prestazioni).

A questi andrebbero aggiunti, secondo la visione unitaria con il sociosanitario di Campedelli, altri 9 miliardi per l’assistenza familiare e i servizi di badantato, 4,2 miliardi di partecipazione alle spese sociali, 4,1 miliardi di mancato reddito dei caregiver.

Infine, secondo una recente ricostruzione del Censis, sono 9,1 miliardi i trasferimenti assistenziali informali, tipicamente gli aiuti delle famiglie verso le giovani coppie o verso i parenti anziani.

Si tratta di un bacino complessivo da circa 250 miliardi di euro, in parte alla ricerca di rendimenti pazienti di medio-lungo termine in grado di diventare investimenti nella filiera della salute, in parte mercato sociosanitario potenziale da affrontare con modalità innovative, in parte entrambe le cose

Nell'insieme, e con le dovute specificità, una domanda di servizi fortemente orientata verso quella che geneticamente potrebbe essere l’offerta delle imprese sociali.

Tirando le somme «si tratta», ragiona Campedelli, «di un bacino complessivo da circa 250 miliardi di euro, in parte alla ricerca di rendimenti pazienti di medio-lungo termine in grado di diventare investimenti nella filiera della salute, in parte mercato sociosanitario potenziale da affrontare con modalità innovative, in parte entrambe le cose; comunque dalle conseguenze rilevanti sul modello di social business.

Per affrontare questi mercati – continua Campedelli – «servono sia finanziamenti importanti ma pure nuove modalità di rapporto tra investitore e imprese sociali (venture capital, impact investment, ecc.) rispetto alle quali qualche fondo previdenziale ha dimostrato segnali di interesse. Più in generale, i fondi della previdenza complementare e della sanità integrativa potrebbero gestire questa opportunità in logica di filiera sussidiaria tramite l’adozione della formula imprenditoriale delle imprese sociali non profit. Infatti essa si caratterizza per la massimizzazione relativa e non assoluta dei profitti che in parte vengono reinvestiti ed in parte potrebbero essere distribuiti con un tetto alla redditività (si veda la Riforma del Terzo settore in discussione al Senato)».

In ogni caso è il modello di social business delle imprese sociali che dovrebbe cambiare. Al riguardo Campedelli delinea alcune linee di prospettiva:

  1. 1. Diversificazione del portafoglio clienti; la domanda organizzata attraverso i fondi sanitari supera lo schema duale fornitore per la Pp.Aa. vs venditore a cliente privato, imponendo una maggiore versatilità relazionale (leggi filiera sussidiaria) ma garantendo anche una maggiore flessibilità (leggi sicurezza) nelle strategie di impresa
  2. 2. Cambiamento delle dimensioni produttive; una committenza forte, per quantità e temporalità, come può essere quella di un fondo sanitario, se da una parte comporta una negoziazione sul costo unitario delle prestazioni che tendenzialmente riduce i margini di utile per unità di prodotto/servizio, dall’altra favorisce il potenziamento quantitativo della produzione stessa e quindi un diverso dimensionamento dell’impresa (o per crescita propria o per aggregazione tra imprese); tale committenza, inoltre, è territorialmente più diffusa del bacino in cui la maggioranza delle imprese sociali attualmente operano, e questo aumenta l’esigenza di crescita/aggregazione su dimensioni territoriali più ampie di quelle normalmente praticate;
  3. 3. Estensione della filiera di prestazioni e consolidamento di un modello multi servizi; la tipologia di prestazioni erogabili dai fondi sanitari, visto il co-interesse alla appropriatezza, può estendersi alla educazione sanitaria e alla prevenzione primaria, ampliando quindi l’offerta e sviluppando dentro le imprese sociali processi di crescita delle competenze e di conseguente cambiamento organizzativo;
  4. 4. Potenziamento dei processi informativi; la gestione dell’accesso e fruizione alle prestazioni (richiesta, autorizzazione, erogazione, referti, ecc.) e la conseguente attività amministrativo-contabile comportano l’interfaccia tra sistemi informativi tendenzialmente più sofisticati di quelli utilizzati normalmente;
  5. 5. Assunzione di una prospettiva temporale di medio periodo; alla luce di quanto appena detto risulta di reciproco interesse, sia per l’acquirente che per il fornitore, che si stabiliscano accordi che durino nel tempo; questo permette non solo di ottimizzare i costi del contratto e dell’avvio del rapporto ma di poter ragionare, a differenza di quanto sta avvenendo con il mercato pubblico, su tempi medi per quanto riguarda le proprie strategie di impresa;
  6. 6. Qualità; il potere negoziale dell’acquirente collettivo, il quale a sua volta è chiamato a rispondere ai propri rappresentati, si ripercuote anche sugli standard di qualità che il produttore deve garantire, ben di più di quanto possa avvenire se si ha a che fare solo con il singolo cliente.

In sintesi, una visione diversa, ovvero complementare, a quella filantropica, su cui si sta discutendo in questo periodo.


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