Cooperazione & Relazioni internazionali

Vaccari: «Ecco perché, dopo Parigi, la fraternité ha ancora qualcosa da dirci»

I fratelli non si scelgono, come i nemici. I fratelli però si ritrovano. E in ogni conflitto, prima delle grandi organizzazioni, c’è qualcuno che si butta là, vuoto a perdere, e crea il primo ponte. Una riflessione di Franco Vaccari, fondatore di Rondine Cittadella della Pace, l'associazione candidata al Nobel per la Pace 2015

di Franco Vaccari

Franco Vaccari è fondatore e presidente dell'associazione "Rondine – cittadella della pace", è stato candidato al Nobel per la Pace 2015. Questo discorso, dal titolo "Fratellanza o inimicizia? La chiave del futuro è la relazione" è stato pronunciato a ottobre 2015 all'Arché Live, l’appuntamento annuale dei volontari e dei sostenitori di Fondazione Arché.

La storia di Rondine

Un po’ di storia brevissima, anzi una preistoria e una storia. Questa rondine di cui si parla è un borgo a 10 km da Arezzo. Quindi non è che abbiamo dato noi il nome. No, non è così la storia.

La storia è all’incontrario: c’è un borgo a 10 km da Arezzo, che si chiama “Rondine” e si trova sull’Arno. Sono 20 case. Quando era abitato c’erano circa un centinaio di contadini intorno ad un castello dell’anno 1000, tutto diroccato. Succede che eravamo un gruppo di giovani famiglie che volevamo realizzare una comunità sull’onda del Concilio Vaticano II, di condivisione, di accoglienza fraterna, di apertura alla condizione delle persone più svantaggiate e cercavamo un luogo dove poter realizzare questo.

Ci dette un’indicazione l’allora vescovo di Arezzo: “Andate lì, perché mi piange il cuore: è tutto abbandonato”. E noi sbagliammo strada. Cominciammo così: andammo da un’altra parte, non sapevamo neanche dov’era.

Quel giorno, nell’animo di questi quasi trentenni che eravamo, è nato qualcosa che è strano. Però lo vogliamo togliere dalla retorica, non fa servizio alla realtà concreta che deve andare avanti, no? Lo indaghiamo come motore di azione. Perché lì è il motore, dobbiamo capirlo questo: abbiamo avuto un presentimento. Forse le donne mi possono capire meglio, quando si attende un figlio, perché è un presentimento, un presagio. Non era ancora un sogno perché poi si è realizzata una cosa che è molto diversa da quella che in quel giorno, in quel tempo pensavamo. Perché dico questo? Perché c’è un motore che genera spinta verso il futuro in ognuno di noi, credo. Però poi ci vuole la disponibilità ad incontrarsi con l’altro, perché l’altro ci fa cambiare strada. Su questo vorrei riflettere con voi un po’.

L’incontro con l’altro implica il cambiare strada

Noi ci siamo trovati perché se non incontriamo l’altro, vuol dire che tiriamo dritti. E “tirare dritto” vuol dire spesso tirare dritto per la propria strada, non guardare né a destra né a sinistra e non renderci conto che magari potremmo, pure senza voler ferire qualcuno, o non riconoscere qualcuno che ha bisogno di noi. Guardarsi un po’ a destra e a sinistra, e insomma fuor di metafora, incontrarsi davvero con l’altro, ci fa cambiare strada e la nostra è una strada cambiata.

Prima delle grandi organizzazioni, in ogni conflitto, c’è qualcuno che si butta là, vuoto a perdere, e crea il primo ponte per vedere quali sono i due partiti della pace e i partiti della guerra tra tutti e due i fronti.

Franco Vaccari

Perché? Perché dopo tanti anni in cui pensavamo obiettori di coscienza e tutta sti tema qua, accoglienza, società, esperienza forte con i disabili, i detenuti in semilibertà, abbiamo lavorato nel carcere di Arezzo. Dopo tutta questa esperienza nasce una cosa stranissima. A un certo punto ho avuto la grande fortuna di conoscere La Pira. Quindi andiamo a vedere che è successo di La Pira a Mosca. Vi ricordate la visita al Cremlino? Dopo 20 anni siamo andati e abbiamo conosciuto tutti quelli che stavano uscendo dai gulag. E questi li invitiamo da noi, vengono da noi e uno, soprattutto, Dimitri Lichacev, ci dice: “Voi tra Camaldoli, l’Averna, questo posto e questo semidistrutto, dovete far venire i popoli in guerra, perché qui fanno la pace”. Bellissima. Lanciare una frase così è bellissima e anche agghiacciante perché, bella frase, poi spegni la luce, vai a dormire e che ti rimane? Siamo sempre nella categoria del sogno e non della concretezza.

Succede che scoppia la guerra nel ’95 tra Russia e Cecenia. Voi lo ricorderete: i carri armati di Eltsin entrano a Grozny, grande città, 400.000 abitanti, inizia la guerra. Gli amici ci dicono: “Guardate, quando scoppia una guerra, chi vuol far fare la pace…”, ecco, fare ci comincia ad interessare, “…deve mettersi insieme e far dialogare i due eserciti”. “Io sono un insegnante, faccio lo psicologo, non ho competenze.” No, funziona così: prima delle grandi organizzazioni, in ogni conflitto, c’è qualcuno che si butta là, vuoto a perdere, e crea il primo ponte per vedere quali sono i due partiti della pace e i partiti della guerra tra tutti e due i fronti. Io non lo sapevo, però dicemmo di sì. Sul filo di un’amicizia e di una fiducia. Ci siamo trovati a fare sei mesi una mediazione di pace tra gli Eltsin e i Dudaev, tra la Russia e la Cecenia, che terminò nel maggio del ’95, mettendo a fuoco una tregua di 72 ore tra i due eserciti.

La storia non si fa con i “se” e con i “ma”, si fa con i “sì”

Noi non siamo peace-keeper, noi non siamo niente, nulla di questo. Lo facciamo, la tregua viene fatta saltare in aria. E che cosa è successo? È successo però che noi usciamo di scena, le organizzazioni che fanno queste cose prendono in mano le trattative di pace. Che è rimasto? È rimasto l’incontro concreto per 5 mesi con questi personaggi.

Noi non abbiamo mai incontrato i capi, abbiamo incontrato tutti i consiglieri dei capi, chiaramente, no? Era tutto segreto, era tutto secretato. C’eravamo mossi sempre in concordanza con il Ministero degli Esteri del nostro Governo, il senatore Mignone, seguiva tutta l’operazione.

Che era nata? Era nata una fiducia. Era un incontro. E da queste persone arriva la richiesta di far studiare i loro giovani, che ormai hanno un Paese devastato dalla guerra: Grozny era totalmente rasa al suolo, 400.000 abitanti, un cumulo di macerie. Farli studiare da noi perché non potevano più studiare a Mosca, i ceceni chiaramente. La nostra risposta fu questa: “Sì, ma anche i russi. Sì, ma anche i russi”. Voi capite che dietro questa microsequenza di conversazione telefonica nel cuore della notte c’è una storia. Ma se riesco a comunicarvelo c’è una storia, ci sono storie e c’è un incontro di fiducia reciproca. E loro ci risposero con un po’ di umorismo: “Se trovate un russo disposto a dormire in camera con un ceceno, noi non abbiamo problemi”. In effetti i ceceni che avevo incontrato anch’io erano una roba un po’ seria.

Con le nostre amicizie ponemmo una domanda e trovammo i primi due giovani russi. Quando parlo di questo cito sempre i nomi e sono: Iliah e Sergey e, di là, Moussa e Yass. Perché dico questo? Perché la storia non si fa con i “se” e con i “ma”, si fa con i “sì”. E questi 4 giovani, con i loro sì a questa proposta, un po’ ai limiti della follia, con il loro sì hanno dato vita, 18 anni fa, al progetto di “Rondine cittadella della pace”. Ecco qua. Questa è la storia.

Quando arriva, per esempio, un giornalista e mi chiede: “Come è nata, come ha avuto quest’idea?” io dico: “Nessuno aveva mal di pancia quella notte, disturbi del sonno, arcangelo Gabriele… Niente di tutto questo, niente piume, ma una storia viva, di relazioni vive, di apertura, di incontro e di disponibilità all’incontro, con quello che porta. Quindi paradossalmente noi ci abbiamo messo sì la nostra storia, ma poi le richieste esplicite degli altri hanno condotto la storia.

L’importanza di sognare sogni collettivi

Perché ciò che si costruisce insieme non è patrimonio di qualcuno, non è gelosia di qualcuno, ma è la gioia di tutti che si diffonde, è un elemento condiviso. E quindi i sogni non sono quelli individuali che portano alla felicità: quelli si consumano con un’edizione dietro all’altra di smartphone. Sono i sogni collettivi che generano continuamente felicità, bene comune, città belle, abitate bene. Questi sono i sogni comuni. E allora la storia di Rondine in 18 anni è cresciuta, perché sono arrivati i giovani dai luoghi di guerra e a Rondine si vive questa esperienza.

Quindi noi come affrontiamo il tema della pace che, sentite, ne parlo poco perché c’ho allergia pure alla parola “pace”, nel senso che ho sempre paura della retorica. Che si fa alla svelta dire qualche cosa ma è molto più entusiasmante viverla.

Il tema della fraternità è che noi ci ritroviamo fratelli, non ci scegliamo. I fratelli non si scelgono. I fratelli si ritrovano. Allora il percorso della fraternità è da una condizione di necessità a una libertà scelta.

Franco Vaccari

Allora: noi accettiamo i giovani che vengono dai luoghi di guerra. Quindi il titolo per venire a Rondine è: “Essere nemico di qualcun altro”. Se non sei nemico, a Rondine non ci stai. E abbiamo vissuto anche l’esperienza del giovane pakistano, che tardando a venire la giovane indiana, quando abbiamo aperto il fronte, stava male. Paradosso dei paradossi. Perché nel luogo dove tutti vengono per confrontarsi con il nemico, lui, che non aveva la nemica, stava male.

Il tema è che questi 30 giovani vivono per 2 anni la vita comune in questo piccolo borgo. Vivono che cosa? Vivono l’esperienza anche un po’ di claustrofobia. Dico della claustrofobia perché, vedete, il tema della fraternità è un tema interessante. I fratelli ideali sono ideali, quelli concreti sono storie di sangue. Sarebbe molto interessante fare un bell’incontro sulla fraternità, in termini psicologici, in termini spirituali. Ed è anche curioso del come mai non ci sono tante storie di sangue come tra i fratelli e nello stesso tempo continuiamo ad alimentare quest’immagine di fraternità come l’immagine più alta.

Il tema della fraternità è che noi ci ritroviamo fratelli, non ci scegliamo. I fratelli non si scelgono. I fratelli si ritrovano. Allora il percorso della fraternità è da una condizione di necessità a una libertà scelta. Questo è il percorso della fraternità. E non c’è niente di più alto nella vicenda umana che trasformare una condizione di necessità in una di libertà. Perché lì si mette in gioco l’umano. Il vero umano. Ciò che è solo umano. La possibilità di trasformare in libertà ciò che è necessità.

Vedete, da noi, per esempio, arrivano non solo i palestinesi e gli israeliani. Abbiamo una ventina di Paesi con cui abbiamo un rapporto da 20 anni. E ai palestinesi e israeliani, ne avrete sentito tutti voi, molti dicono: “Siete condannati a stare insieme”. “Ma perché vi fate la guerra – suona la domanda – quando è evidente che siete condannati a stare insieme?”. Ma chi riflette un attimo sa che dire questo è lacerare ancora di più la ferita. Perché è il senso della claustrofobia, cioè la possibilità e la voglia di scappare. Perché è la condizione ultima dell’inimicizia: sperare che l’altro sparisca dalla faccia della terra oppure scappare. È la condizione ultima, l’esito ultimo del veleno dell’inimicizia è questo: svegliarsi una mattina e sperare che quello di là dal muro, di là dal reticolato, di là dal quartiere, di là dal palazzo, di là dal muro non ci sia più… Ah che bello!

Allora il tema qual è? Noi lavoriamo sulla sfida posta dai giovani israeliani, palestiniani, indiani, kosovari, russi, ceceni e tutte le coppie di nemici. Di verificare se è possibile rovesciare ciò che la storia ha consegnato loro

Franco Vaccari

Rovesciare la storia

Allora il tema qual è? Noi lavoriamo sulla sfida posta dai giovani israeliani, palestiniani, indiani, kosovari, russi, ceceni e tutte le coppie di nemici. Di verificare se è possibile rovesciare questo. Rovesciare ciò che la storia ha consegnato, avvelenato a queste giovani generazioni. Se fate un volo rapido con me nel mappamondo, vedrete che sono decine di milioni i giovani bloccati di qua e di là da un muro, di qua e di là da un reticolato, da decenni con propagande avvelenate in cui tutte le mattine si svegliano, vanno in autobus, vanno a scuola, vanno all’università e gli viene insegnato che di là si stanno organizzando un popolo, altri giovani che non vogliono altro che la tua, la nostra eliminazione.

Cioè è il fallimento delle generazioni precedenti che consegnano un cibo avvelenato alle generazioni nuove. Allora il tema è: verifichiamo, se possibile, in una condizione non avvelenata, che i giovani possano cominciare a riprendersi la loro libertà di un protagonismo, di dialogo e di incontro autentico che possa far rovesciare il sentimento dell’inimicizia. Cioè vedere che l’inimicizia, alla fine, è un inganno.

Perché quando verrete a Rondine e farete 50 metri a piedi, vedrete una cosa strana che, prima ci arrivate con l’idea dell’utopia, e dopo 50 metri come stringete una mano sembra che sia la cosa più normale della terra. È una quotidianità assolutamente normale, dove ci sono giovani assolutamente normali e dove c’è una vita assolutamente normale, che finalmente fa vedere che è folle l’altro modo di esistere.

È un rovesciamento totale, perché capovolge la dinamica del nemico che si costruisce e si scopre che non c’è un nemico, ma è una relazione avvelenata quella che costruisce il nemico. Non esiste il nemico fisico che si chiude e si apre con una persona, etichettabile e riconoscibile. Questo fa molto comodo alle dinamiche di gruppo, perché quando abbiamo identificato un nemico noi possiamo avere la legittimazione, per legittima difesa appunto, di distruggerlo. Ma se il nemico scopriamo che invece si costruisce nell’inganno di una relazione malata, ci sono in gioco anch’io. Allora anch’io posso far qualcosa.

Cosa posso fare

Allora il tema è del cosa posso fare. E si riproduce la dinamica formidabile e drammatica, e in questi giovani lo vediamo giorno dopo giorno, che è però drammatica, che è quella del tradimento. Perché il primo che tende la mano all’altro, che è nemico, e cerca non il nemico, ma cerca la persona nel nemico, per i suoi è traditore.

Noi abbiamo storie di ragazzi che non possono dire neanche alle famiglie di essere lì. I giovani libanesi non possono dire di essere a dormire, a mangiare, a studiare con i giovani israeliani. Alcune giovani palestinesi non hanno potuto dire che sono con… non che sono amiche, ma che sono con gli israeliani.

I primi russi, che sono tornati per le vacanze in pullman, i primi, i primissimi, hanno detto tranquillamente: “Sì, stiamo in Italia, stiamo con i ceceni”, li hanno presi e li hanno cazzottati. Perché la guerra è guerra, eh! Noi la vediamo, grazie a Dio, solo in televisione, ma la guerra è guerra. I servizi di informazione sono servizi di informazione. I nostri ragazzi si sono dovuti cancellare su Facebook perché le famiglie dei nostri ragazzi sono state visitate dai servizi segreti nelle loro strutture. Questo perché ve lo dico? Perché è interessante dove si smonta il nemico. Perché cambia tutto. Perché questa, sì, è una bomba! Mi capite?

Perché dove si smonta il nemico e si vede che è un inganno, e si vede, io applico sempre il detto di Sant’Agostino, che lo diceva sempre a proposito della Santità, dice: “Si isti et istae, cur non ego?”. È la domanda del: “Se è diventato santo lui e lei, perché io no?”. Questa è una domanda interessante.

È la domanda dei ragazzi, perché all’inizio dicono: “Beh, io sono diventato amico di un israeliano”, sì, ma quello è un caso no? È un caso… Poi del secondo israeliano, poi del terzo israeliano, comincia la domanda: “Ma se tre, perché non quattro?” – capite il rovesciamento? – “E se quattro, perché non cinque?” e lascio a voi continuare.


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