Media, Arte, Cultura

La vita accanto a un figlio disabile diventa un’opera d’arte

Al Museo Diocesano di Milano, Laura Morelli ha realizzato un'istallazione partendo dagli oggetti che 27 famiglie con un bimbo disabile hanno "messo in valigia" per raccontare come è possibile affrontare questo viaggio imprevisto. «Abbiamo voluto il linguaggio dell'arte per provocare e parlare a tutti. L'inclusione la fanno gli individui, non le leggi», spiega Carlo Riva, direttore di l'abilità onlus.

di Sara De Carli

Foto, dischi, libri, foglie, le preghiere, i farmaci, i capelli… Oggetti che raccontano di padri e madri che ogni giorno si aggrappano a qualcosa per vedere di nuovo l’azzurro del cielo. Oggetti che provocano, che sfidano, quasi “osceni” nel loro realismo (l’aggettivo lo usa spesso Carlo Riva, curatore della mostra), che emozionano, che irritano, che provocano non per commiserazione o compassione ma per quel processo empatico che così difficilmente scatta quando si parla di disabilità. Questi oggetti, nella loro corporeità, raccontano la vita quotidiana di padri e madri e fratelli di bambini con disabilità e sono in mostra, dal 22 dicembre 2015 al 7 febbraio 2016, presso il Museo Diocesano di Milano: la mostra si chiama Maternage – Tracce di un viaggio ed è un’installazione di Laura Morelli, promossa e organizzata dall’Associazione l’abilità onlus (martedì-domenica, 10-18, chiuso il lunedì).

«Ho consegnato così delle valigie a madri e padri e fratelli perché raccontassero come sono ripartiti per il loro viaggio dopo che gli è stato detto che il bambino aveva qualche problema», racconta Carlo Riva, direttore di l’abilità Onlus: «Questi bagagli sono diventati “Maternage”. Un’esplosione di sentimenti, di quotidianità che doveva essere patrimonio di una nuova cultura della disabilità. Con questi oggetti padri e madri ci invitano ad avvicinarsi, a provare a entrare nelle loro case, a vivere quella quotidianità che noi, presunti normali, non vogliamo vedere. Perché fa paura, perché è altro, perché è sofferenza, perché è troppo. Perché non mi riguarda. “Maternage” è dentro un museo perché è un’opera d’arte e può parlare ad ogni tipo di pubblico e nel suo linguaggio universale, quello dell’arte, educa, affascina, sconcerta, irrita, ferisce. Perché è l’immagine delle contraddizioni del vivere».

Con questi oggetti padri e madri ci invitano ad avvicinarsi, a provare a entrare nelle loro case, a vivere quella quotidianità che noi, presunti normali, non vogliamo vedere. Perché fa paura, perché è altro, perché è sofferenza, perché è troppo. Perché non mi riguarda.

Carlo Riva

ll percorso si snoda attraverso otto stanze, nelle quali il pubblico entra in contatto con la sfera intima della famiglia di un bambino con disabilità, con il loro vissuto quotidiano. L’esposizione nasce dal progetto “In viaggio senza valigie” dell’associazione, che offre servizi di aiuto alle famiglie con figli da 0 a 6 anni, che hanno da poco ricevuto la comunicazione della disabilità del loro bambino. All’inizio del progetto, nel settembre 2013, l’abilità ha consegnato delle valigie vuote a queste famiglie, chiedendo loro di riempirle con oggetti che rappresentassero il nuovo viaggio della vita insieme al loro figlio con disabilità. Il contenuto di 27 valigie è stato poi affidato all’artista Laura Morelli, che lo ho trasformato in un’installazione d’arte. Accanto alla mostra sono in programma workshop e laboratori per bambini (iscrizioni gratuite allo 02/66805457, info sulle date e i titoli www.labilita.org).

Dottor Riva, la valigia è un po’ la traccia dei vostri percorsi. Perché?

La valigia è simbolo del viaggio che i genitori di bambini con disabilità intraprendono, un viaggio a cui non sono preparati. C’è una poesia a cui ci siamo ispirati, di un poeta americano: racconta di due futuri genitori che si preparano per un viaggio, sognano l’Italia, un paese con le gondole e Michelangelo e poi arrivano in Olanda. Quando nasce un bambino con disabilità i genitori sono catapultati in un pase che non si aspettavano, dove non hai le mappe né i vestiti adatti, volevi vedere Michelangelo e trovi i mulini a vento… Noi come associazione abbiamo preparato una valigia, messo dentro le cose e i servizi che secondo noi potevano essere utili in questo “paese inaspettato”. I servizi sono conforto, sostegno, aiuto. Ma questi genitori vivono tutti i giorni tutto il giorno insieme al loro bambino, nella loro valigia cosa mettono per continuare a vivere e sopravvivere? Per questo abbiamo dato una valigia vuota a una cinquantina di famiglie, nel settembre 2013, volevo che le famiglie stesse raccontassero la loro storia, attraverso oggetti che parlassero non a noi operatori ma a un pubblico.

Quindi fin dall’inizio c’era l’idea della mostra? Perché cercare un altro linguaggio?

Avevo chiara l’esigenza che alcune famiglie raccontassero il mondo disabilità a un pubblico. Il materiale che queste famiglie ci consegnavano non doveva servire per letture analitiche o psicologiche, per noi esperti ma per creare inclusione. Per questo abbiamo pensato al linguaggio dell’arte. L’arte provoca, l’arte educa, l’arte è un linguaggio comune a tutti: volevamo arrivare al pubblico attraverso l’arte. Questa è una mostra che provoca, che educa, che è contraddizione come lo sono l’arte e la vita di tutti i giorni.

Un papà ha messo il guinzaglio del cane, perché avendo due bimbi piccoli, entrambi con disabilità, lui si salva quando riesce a passeggiare qualche minuto con il cane.

Carlo Riva

Cosa hanno messo le famiglie dentro le valigie? Cosa l’ha colpita?

Gli oggetti più strani. Speso nel catalogo uso l’aggettivo “osceni”, nel senso di oggetti non ordinari, che non ti aspetti in una famiglia dove c’è la disabilità, che provocano. Una famiglia ha messo le scatole dei farmaci che hanno tolto le crisi epilettiche al bambino, perché da quel momento hanno ricominciato a vivere. Un papà ha messo il guinzaglio del cane, perché avendo due bimbi piccoli, entrambi con disabilità, lui si salva quando riesce a passeggiare qualche minuto con il cane. C’è la federa di un cuscino, una coppia ha detto “la sera quando andiamo a letto finisce l’incubo della giornata”.

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Un fratello si è tagliato ciocca di capelli, una mamma ha messo uno specchio, perché “guardarmi allo specchio mi aiuta a ricordare che devo pensare anche a me stessa e non solo vedermi come madre di un bambino con disabilità”. Queste voci si trovano nella prima stanza, l’unica didascalica, dove il visitatore trova due tracce audio molto lunghe e comincia ad ascoltare le voci raccolte che raccontano di sé, degli oggetti e dello sguardo degli altri, come gli altri li vedono e li giudicano, come questi genitori vivono nella società. Per questo nella prima stanza c’è una palla riflettente di 3 metri di diametro in cui visitatori si vedono riflessi, è lo sguardo dell’altro che ricade su di sé. Poi ci sono le cipolle, che fanno piangere e irritano gli occhi: l’ascolto qui fa male.

Cosa succede proseguendo?

Quando si va avanti l’occhio si purifica. Dalle voci si passa al silenzio. Alla fine c’è l’acqua.

La prima volta che ha visitato la mostra finita, cosa ha provato?

Io coordinato il progetto, lo abbiamo costruito insieme con Laura Morelli. La cosa più interessante, rivedendola finita, è che nel nostro lavoro quotidiano noi vediamo sempre in faccia i genitori, siamo chiamati a relazione di aiuto immediato. Qui io non avevo volti, solo voci e oggetti e questo mi ha consentito di lavorare su di me, consente di avvicinarsi ancora di più al processo empatico.

Mi auguro che questa mostra aiuti questo processo, perché l’inclusione non passa dalla legge ma dagli individui.

Carlo Riva

Lei dice che la mostra vuole essere “patrimonio di una nuova cultura della disabilità, un’opera corale a disposizione di una comunità, di una città”. Perché?

Il limite dei processi di inclusione di una persona con disabilità, oggi, è che nonostante leggi è ancora difficile realizzarli. Il problema è culturale, serve una nuova cultura della disabilità, essere riflessivi e introspettivi, riflettere su chi è la persona con disabilità per me e perché io devo impegnarmi per realizzare questa inclusione: senza tutto questo le leggi servono a poco. Mi auguro che questa mostra aiuti questo processo, perché l’inclusione non passa dalla legge ma dagli individui. Per questo la mostra si chiude con una stanza in cui tutti sono accomunati– persone che vivono la disabilità da vicino e non – intorno al tema della sofferenza e del dolore: tutti abbiamo momenti difficili, anche senza avere a che fare con la disabilità. Nell’ultima stanza c’è un muro digitale in cui le persone sono chiamate a rispondere alla domanda “cosa ti aiuta ad andare avanti nei momenti difficili?” e le loro risposte compaiono immediatamente sul muro. Famiglie e pubblico diventano un tutt’uno.

In copertina, Stanza 1, La palla specchiante, foto di Giovanni Diffidenti


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