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Un fischietto per combattere il traffico di minori

Lo usano i bambini che vanno a scuola, per richiamare i compagni e fare una sorta di piedibus che cammina per due o tre ore. Nel sud dell'Etiopia, un Paese che conta un milione di bambini vittime del traffico di esseri umani, rafforzare la frequenza scolastica è un primo antidoto contro il traffico. È uno degli strumenti che Ciai utilizza nel suo progetto triennale, presentato da Chiara Biffi

di Sara De Carli

Nel sud dell’Etiopia, nelle zone rurali e di montagna, il traffico di minori è una triste realtà. Nei villaggi girano brocker che si rivolgono ai ragazzini stessi o alle famiglie, pagano i bambini oppure fanno false promesse di studio e lavoro: i ragazzini poi vengono impiegati in laboratori tessili, piantagioni di banane o come collaboratori domestici, a volte c’è anche il rischio di uno sfruttamento sessuale. Le stime calcolano che siano un milione i bambini vittime del traffico di minori in Etiopia. Nella città di Arba Minch, nella regione del Gamo Gofa, quando si riesce a intercettare questi bambini e a salvarli dal traffico, l’unica sistemazione per loro, in attesa di tornare in famiglia, è la prigione locale. Il Ciai – che ha da poco avviato “Protect”, un progetto triennale finanziato dal Mae – sta sistemando per loro un temporary shelter. Il progetto ha un approccio multidimensionale: segue i ragazzini vittime del traffico e le loro famiglie ma soprattutto punta sulla prevenzione, con la sensibilizzazione delle comunità (incontri con gli anziani dei villaggi e una trasmissione radiofonica settimanale sui temi della protezione dell’infanzia), la formazione della polizia locale e degli autisti di autobus per “intercettare” i sospetti brocker e il rafforzamento della frequenza scolastica. Chiara Biffi, rappresentante Paese per l’Etiopia del Ciai, ci racconta la sua attività.

Chiara, che cos’è Protect?

È un progetto finanziato dal MAECI e dalla cooperazione italiana, durerà tre anni, ed è l’evoluzione di un intervento che CIAI ha avviato nel 2009 per combattere il traffico di minori, attraverso l’istruzione, in 4 distretti del Gamo Gofa, con fondi privati di fondazioni e del sostegno a distanza. Il nuovo progetto Protect è esteso ad altri 4 distretti e mira a rendere i bambini, i loro genitori e le comunità di appartenenza in grado di proteggersi dal fenomeno del traffico.

Quali sono i dati di contesto?

Il fenomeno del traffico di esseri umani è per sua natura inquantificabile, Le stime che abbiamo segnalano la presenza di 5,5 milioni di vittime di traffico di esseri umani nel mondo, di cui 1,2 in Etiopia: di questi la maggior parte sono donne e bambini. Noi nel nostro progetto ci riferiamo alla migrazione interna, che va da una regione particolare – il SNNPR, ne sud del Paese – che è famosa per lo spostamento di minori verso centri urbani. Le vittime di questo traffico sono bambini e donne, i bambini sono impiegati in varie attività lavorative, in laboratori tessili, nelle piantagioni di banane o come collaboratori domestici. Tante ragazzine di 16-17 anni vanno a lavorare nei ristoranti, nei bar, come accompagnatrici.

In Etiopia la popolazione che vive con meno di 1 euro al giorno è pari al 39%; la malnutrizione colpisce il 40% della popolazione infantile; il tasso di mortalità infantile entro i 5 anni resta ancora molto alto: 68 su 1.000 (dati Unicef)

Quali sono le ragioni alla base del traffico?

I fattori di spinta sono riconducibili alla povertà. Ovvio che non tutti i bambini che si spostano sono stati trafficati, però abbiamo brockers che in maniera più o meno velata si rivolgono a bambini e alle famiglie, pagano i bambini o fanno false promesse come lo portiamo ad Addis Abeba per farlo studiare e lavorare poi invece il bambino entra in situazioni di schiavitù.

Come avviene il traffico?

I brocker hanno rotte precise da seguire a livello geografico, sanno dove ci sono posti di blocco e cambiano periodicamente i loro spostamenti. Hanno anche schemi precisi di azione. Spostano i bambini dalla zona di montagna verso un primo nucleo urbano, in periferia, da qui in città, infine approdano ad Addis Abeba. Si spostano a piedi e poi in autobus: per questo nel progetto c’è anche la formazione degli autisti di autobus: “state attenti” – diciamo – “se vedete un adulto con 5/10 bambini ponetevi una domanda e magari fate anche una segnalazione alla polizia”. Anche se spesso ad accompagnare per conto del brocker questi gruppi di bambini non è un adulto ma un ragazzino quasi loro pari. L’Etiopia è un paese federale, nella zona del Gamo Gofa che è particolarmente soggetta a questa problematica c’è una legge per combattere traffico, abbiamo avuto un fortissimo appoggio da parte delle autorità: il lavoro che fa Ciai è un rafforzamento.

Qual è l’approccio su cui puntate per contrastare il traffico di minori?

È multidimensionale. Cerchiamo di creare una sensibilità sul traffico e sulle sue conseguenze, nelle famiglie e a livello di comunità: lavoriamo in 8 distretti, organizziamo riunioni con i anziani del villaggio per discutere di tematiche connesse al traffico e alla protezione dell’infanzia, per creare un pensiero comune. Curiamo un programma radiofonico trasmesso ogni settimana, che raggiunge tutta la popolazione e parliamo a 350mila persone, dando suggerimenti ai genitori.

Il progetto coinvolge 37.200 bambini e ragazzi che frequentano le 52 scuole del Gamo Gofa, 676 membri delle associazioni Insegnanti-genitori-studenti, 260 funzionari scolastici, 600 rappresentanti delle autorità locali, 600 studenti italiani. Indirettamente il progetto raggiungerà circa 352.600 persone che vivono nelle zone di intervento in Etiopia.

In pratica?

Far capire che lo strumento per cercare un futuro migliore è l’educazione: di conseguenza rafforziamo le strutture scolastiche, lavorando in 52 scuole, con attività di formazione per i dirigenti e gli insegnanti. Lavoriamo insieme alle parents, students and teacher associations, che sono un po’ il “gruppo spinta” delle scuole. Con il nuovo progetto faremo nuove scuole: alcune zone hanno la scuola primaria (dalla 1 alla 5 classe) e amplieremo fino all’8 classe. Questo consentirà ai ragazzi di andare a scuola più a lungo e nella loro area: un fattore di “pericolo” per il traffico infatti è andare a scuola lontano da casa. Poi c’è la peer education, con gruppi di studenti a cui diamo strumenti concreti e di formazione per coinvolgere i loro compagni, ad esempio abbiamo fornito ad alcuni dei fischietti.

Dei fischietti per prevenire il traffico?

Sì, quando me lo hanno proposto anche a me è sembrata una cosa piccola, invece funziona. Queste sono aree con molto drop out scolastico e ovviamente non andare a scuola è un fattore di rischio. Fra le cause del “perdersi” c’è il fatto che i bambini devono camminare 2/3 ore in montagna, avendo mangiato pochissimo e quindi con pochissima energia; spesso i genitori non comprendono l’importanza della scuola. Ecco i fischietti. Quando camminano i ragazzini fischiano e così “chiamano” tutti i bambini e fanno una specie di piedibus per andare a scuola, fatto da altri bambini. Funziona.

Ci sono sinergie con le autorità locali?

Facciamo formazione per i membri polizia di zona e locali in cui spieghiamo il traffico e le nuove rotte: la polizia spesso le conosce, ma diamo strumenti in più per intercettare i brockers. Con gli autisti degli autobus il lavoro è più o meno simile: creiamo consapevolezza del fenomeno, se vedete situazioni dubbie fate immediatamente una denuncia alla polizia. Creeremo un numero verde a cui tutte le persone che vedono situazioni di allarme possono rivolgersi: risponderà un poliziotto.

Una volta che i bambini trafficati sono individuati, che succede?

Nella città di Arbaminch stiamo sistemando un temporary shelter per loro: la struttura è già esistente ma non è mai effettivamente attivata, la stiamo completando in modo che sia child friendly. Accoglierà i bambini effettivamente individuati come trafficati, in attesa di essere riunificati. Oggi questi bambini sono collocati nella stazione della polizia, insieme ai prigionieri adulti, nella prigione della zona. Il bambino starà in questa struttura 5-10 giorni, con assistenti scoiali e psicologi, in attesa di essere riunificato con la sua famiglia.

È sempre così?

Quando questo è il migliore interesse del bambino. Ovvio che si deve fare con la famiglia un lavoro per capire se il bambino è stato portato via con inganno o se c’è una certa consapevolezza della famiglia stessa, nel qual caso si deve lavorare anche per rafforzare la famiglia. Si cerca di creare un’attività che sia fonte di reddito, perché la sensibilizzazione di per sé non basta se si hanno 10 figli e si muore di fame.