Welfare & Lavoro

Affido sine die, a volte meglio viverlo in comunità

Federico Zullo, presidente e fondatore di Agevolando, interviene in merito alla proposta di Marco Chistolini per arginare gli affidi sine die: dopo 24 mesi di allontanamento, se non c'è la possibilità di rientro in famiglia, il minore dovrebbe andare obbligatoriamente in adozione. «24 mesi sono pochi per il rientro, ma abbastanza per valutare l'impegno della famiglia verso il cambiamento»

di Sara De Carli

Federico Zullo è presidente e fondatore di Agevolando, un’associazione che lavora sul difficile passaggio verso l’autonomia dei neodiciottenni che escono da esperienze di affido o di comunità. Con la campagna “5 buone ragioni”, insieme ad altre associazioni, ha attirato l’attenzione della politica sulle necessità di dare opportunità ai ragazzi in uscita e soprattutto di consentire loro di avere “voce in capitolo” rispetto al proprio percorso. Il loro “Care Leavers network”, da regionale sta per diventare nazionale, grazie a una convenzione con il Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza e a luglio 2017 ci sarà la prima conferenza nazionale dei Care Leavers network. A lui quindi abbiamo chiesto un’opinione in merito all’analisi fatta da Marco Chistolini sulla preoccupante diffusione dell’affido sine die in Italia e sulla sua proposta di rendere obbligatoriamente adottabile il minore se dopo 24 mesi di allontanamento la sua famiglia non ha ancora avviato un percorso che renda immaginabile un rientro in famiglia in tempi brevi.

Che ne pensa di questa proposta?

Iniziamo col dire che Chistolini dice cose che condivido, in Italia da tempo il sistema di tutela dei minorenni in situazioni pregiudizievoli rispetto alla loro famiglia è critica, sia per le risorse che mancano sia per qualità degli interventi dei servizi. Condivido anche che vi sia un po’ di sopravvalutazione dell’importanza del legame biologico: siamo tutti d’accordo che l’ideale sarebbe che ogni bambino crescesse nella sua famiglia, ma se questa famiglia ha difficoltà che derivano da problematiche varie, su cui le famiglie spesso non lavorano e anzi non si mettono nemmeno in discussione perché pensano sia giusto così – penso ai maltrattamenti e alle violenze sui bambini – allora questa ritrosia verso l’allontanamento dei bambini è dannosa. Eppure succede, anche quando sarebbe il bene per il bambino sarebbe l’allontanamento.

Condivide che, una volta deciso per l’allontanamento e per l’affido in una famiglia, dopo 24 mesi è opportuno mettere un punto fermo e se non ci sono le condizioni perché il bambino rientri nella sua famiglia, meglio è per lui dargli un orizzonte stabile, dichiarandolo adottabile e quindi inserendolo in una nuova famiglia?

Occorre che il progetto di affido abbia un inizio e una fine, come peraltro dice la legge. Secondo me in tanti casi due anni non bastano per incidere in modo efficace sulle capacità di una famiglia maltrattante o trascurante, due anni sono spesso appena il tempo sufficiente per mettere la famiglia nelle condizioni di capire che bisogna fare qualcosa. In questo senso – considerati anche i tempi del tribunali – dichiarare l’adottabilità dopo due anni mi sembra eccessivo, però d’altra parte non si può nemmeno tollerare questa cosa degli affidi sine die. Io credo che sia possibile in due anni valutare una famiglia rispetto a degli obiettivi e indicatori che mi fanno capire che questa famiglia ha accettato di mettersi in discussione e che ha iniziato un percorso. Se queste condizioni ci sono, anche se il minore non può rientrare ancora in famiglia, la dichiarazione di adottabilità mi sembra fuoriluogo.

Sul campo che situazione vede?

Rileviamo continuamente di ragazzi che arrivano all’alba della maggiore età in situazioni disastrose. A 16/17 anni hai bisogno di mettere in discussione il mondo, le regole, la paternità, tutto… ma tante famiglie affidatarie non sono preparate e così tantissimi ragazzini arrivano in comunità da affidi falliti, che durano troppo e un po’ anche perché queste famiglie vengono prese in giro con questa faccenda degli affidi sine die. Il doppio abbandono però è estremamente pesante, diventa molto difficile riuscire a dare contributo utile: così questi ragazzini non si stimano, credono che nessun adulto sia interessato a loro, si credono “scarti della società”.

Secondo lei anche a tutela dei minori in comunità si dovrebbe porre un limite temporale all’allontanamento dalla famiglia d’origine?

Dipende dall’età. Se un minore entra in comunità da bambino è necessario che ci stai il minor tempo possibile, ma se invece ci entra da adolescente o con difficoltà importanti, in comunità può trovare più aiuti che in famiglia, perché la comunità ha la possibilità di mettere in campo strumenti professionali. Il ragazzo inoltre quando è in comunità ha la consapevolezza che quello è forzatamente un passaggio della sua vita, non si immagina che potrà stare lì per tutta la vita come invece può accadere in una famiglia affidataria… Paradossalmente è meglio che questa “lungaggine di accoglienza” si verifichi in una comunità piuttosto che in affido. Con i bambini invece occorre davvero darsi da fare per rendersi conto il più in fretta possibile se la famiglia d’origine può migliorare e riavere a casa il figlio – allora diciamo sono passati due anni o anche tre ma ce ne diamo un altro perché quella famiglia sta lavorando – se invece la famiglia non si mette in discussione si faccia il decreto di adottabilità. Che poi si possa fare anche un’adozione aperta, come suggerisce Chistolini, perché no? È qualcosa che può essere per certi ragazzi d’aiuto.

Condivide che i servizi siano paradossalmente adultocentrici?

Più che dire che i servizi sono adultocentrici, direi che la cultura degli interventi di tutela sui minorenni in Italia è ancora ancorata alla tradizione che il minore non può avere voce in capitolo. Come Agevolando stiamo lavorando tantissimo su questo, affinché il minore venga sempre più ascoltato e messo nelle condizioni di poter dire cosa pensa rispetto alla sua situazione e a cosa si sta immaginando per lui. Non è questione dei servizi, ma di cultura del Paese, è fondamentale. Molti servizi davvero ce la mettono tutta per lavorare bene, la maggior parte degli operatori fa il possibile, ovviamente con gli strumenti che hanno in mano. Questo è il punto politico, non i servizi.

Foto LOIC VENANCE/AFP/Getty Images


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