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Politica & Istituzioni

2mila minori disabili in situazioni segreganti e la legge sul dopo di noi tace

La Camera ha iniziato ieri l'esame della legge sul Dopo di Noi. Per Carlo Giacobini, direttore di Handylex, tanti sono i punti critici. A cominciare dal fatto che si crea l'ennesimo fondo ma senza una visione d'insieme e che non si creano le condizioni per eliminare le tante - troppe - situazioni segreganti

di Sara De Carli

«Quelli di noi che confidavano in un’imminente “legge 180” sulle istituzioni per disabili o che speravano nell’avvento di politiche integrate e inclusive, devono rinviare il loro appuntamento con la storia. Sine die»: sono amare le conclusioni di Carlo Giacobini, direttore di Handylex, sulla legge sul Dopo di Noi di cui ieri la Camera ha iniziato l’esame.

Perché il riferimento alla legge 180? La disabilità ha ancora oggi un problema di segregazione?
350mila persone in Italia vivono in situazioni potenzialmente segretanti. Ci sono fra loro anche minori, circa 2mila. Come usciranno da quelle situazioni? Come spingere perché tornino nel loro tessuto sociale? Cosa facciamo contro la segregazione e il riprodursi di queste situazioni? Concretamente, non a livello teorico? Mi aspettavo un articolo che dicesse che dal 2018 non verranno più finanziate strutture di un certo tipo, o comunque esplicitasse che quella deve essere l’ultima delle soluzioni, prima provo aver esperito tutte le possibili modalità per fare stare le persone nel loro territorio. Nella legge non ve ne è traccia.

La legge che sta per essere approvata è quindi già un’occasione perduta?
Direi di sì, benché ci siano posizioni diverse rispetto a questa proposta di legge, abbastanza variegate. Questo testo nasce da sei testi molto diversi, è difficile con queste condizioni di partenza raggiungere un testo che abbia una coerenza interna sostenibile, ma di fatto siamo di fronte a un intervento ultrasettoriale, mentre ciò di cui la disabilità ha bisogno è al contrario non fare un ragionamento a pezzi, per fondi e norme specifiche. Le politiche per inclusione devono partire da un ragionamento che riguarda tutto. E poi… basta guardare il titolo: sono 10 anni che abbiamo la Convenzione Onu e qui si parla ancora di persone “affette” da disabilità come se la disabilità fosse una patologia.

Lei critica anche il fatto che la legge si rivolga innanzitutto ai disabili gravi. Perché?
Perché il rischio di esclusione è ugualmente forte sia per persone con grave limitazione funzionale sia per quelle con una limitazione limitata. Anzi, forse in alcuni casi il rischio qui è ancora più forte perché non c’è un intervento sanitario o sociosanitario. Perché farne una questione di gravità? Devo restringere la platea? E allora valuto l’accesso caso per caso.

Qual è il problema del moltiplicarsi dei fondi? Perché non è una buona notizia?
Mi lascia perplesso. Abbiamo il fondo per la vita indipendente, il fondo per il dopo di noi, il fondo per l’autismo, da pochissimo è stata depositata un proposta di legge per il riconoscimento dei caregiver familiari, che avrà il suo fondo. È chiaro che ogni tema ha sue specificità, ma quando ragiono su dopo di noi devo ragionare anche sui caregiver, è un ragionamento trasversale. Così il ragionamento sula vita indipendente non può riguardare solo chi oggi è in grado di autodeterminarsi, ma anche chi ha una autonomia ridotta. Nemmeno sfiora la riflessione del legislatore la considerazione che le misure per il “dopo di noi” debbano essere intrinsecamente contigue ad altri interventi: dal sostegno alla vita indipendente, al supporto alla genitorialità e ai caregiver familiari e addirittura al tema dell’impoverimento… Non è discorso utopico, ad esempio a Pordenone esistono percorsi bellissimi di incusione di persone con sindrome di down, dove il gruppo fa da trampolino di lancio per piccoli gruppi da due, che vivono in autonomia all’interno di un contesto, si lavora sulle reti sociali, sul buon vicinato, è un lavoro complesso. Le buone pratiche esistono, ma senza una cornice culturale, di politiche e organizzativa, restano delle buone quanto irriproducibili e disperatissime pratiche, come un bel diamante che piace moltissimo ma che non potrò mai avere. Tentare di riprodurre queste soluzioni comporterebbe un approccio a 360 gradi alla disabilità.

Lei ha scritto che la visione di uno scenario diverso manca così tanto da generare sospetti, retropensieri, dubbi. Quali?
Lascia il margine del sospetto che questo Fondo servirà per costruire altre residenze o per dividere in due residenze che oggi accolgono 30 persone. I sospetti che vengono dal fatto siamo dinanzi a una norma in cui la parte tecnica più chiara e dettagliata è quella che riguarda il trust, che è una soluzione per pochi. Sarà un bell’affare. Sia chiaro, non demonizzo il trust ma dico che in Italia abbiamo anche altri strumenti di natura civilistica che si è proposto di inserire nella legge, proposte che non sono state accolte. Comunque senza dubbio il trust non è la bacchetta magica che risolve il problema del dopo di noi.

Quindi cosa servirebbe?
Serve uno sforzo complessivo per disegnare un servizio che va dalla costruzione dell’autonomia, all’inclusione, mettere insieme reti di buon vicinato e reti informali, una visione diversa delle nostre città… altrimenti ognuno pensa al suo pezzetto. È un benessere complessivo quello che serve. Servono politiche complessive non frammentarie. Dopodiché non è che si butta via il bambino con l’acqua sporca, portiamo a casa questa legge e poi tenteremo di lavorare perché questa si inserisca in un disegno più generale.

Prima accennava al fatto che esistono realtà positive, come a Pordenone. Quanto pesa, a un genitore con un figlio con disabilità, sapere che uno scenario diverso è possibile ma non si lavora alle condizioni per replicarlo?
Devo dire che oggi molti genitori, che magari vivono da 40 anni con un figlio con disabilità grave, non arrivano nemmeno più a intravedere un’alternativa, tanta è l’angoscia e la disperazione. Tanta è la disperazione da non vedere neanche la fine del tunnel. È questa la cosa più triste.

Ha citato la necessità di ragionare anche suil tema dei caregiver familiari e la recente proposta di legge. Domani a Montecitorio ci sarà il convegno “Il Caregiver Familiare in Italia, tra malintesi e disattenzione”, voluto dalCoordinamento Nazionale Famiglie Disabili. A che punto siamo?
È urgente intervenire anche in modo forte e deciso sulla situazione dei caregiver familiari, che è disperata. Poi possono esserci punti di vista divergenti sul come farlo, ma la questione è davvero non più rinviabile. Ripeto però che non credo sia utile pensare di dire oggi vinciamo la battaglia sul caregiver familiare, domani facciamo una battaglia sulla vita indipendente e così via: sono cose intrinsecamente collegate, come per i servizi, è questo che la politica non ha capito fino in fondo. Oggettivamente oggi ci sono caregiver in Italia che stanno vivendo da oltre 15/20 anni una vita totalmente dedicata al figlio con disabilità, senza nemmeno la possibilità di curarsi, andare dal dentista. Abbiamo questo tema e anche un altro: come evitiamo che queste situazioni si ripetano? D’accordo, c’è una scelta d’amore per i figli ma anche una propria dignità: come evitare che una donna rinunci a tutto? 40 anni fa forse non c’erano alternative e soluzioni, era “normale” che la donna rinunciasse al lavoro: oggi questo non è più sostenibile, nè economicamente né culturalmente. Riprodurre una situazione vecchia di 40 anni è impensabile e invece il legislatore cosa pensa di fare? La proposta di legge appena depositata ( è agli Atti della Camera con il numero 3414 e ha come primo firmatario, Iori) riconoscere il ruolo del caregiver familiare, ovvero gli riconosce la possibilità di interfacciarsi con i servizi sociali, dandogli un sostegno psicologico e relazionale, anche in forma di auto-mutuo-aiuto. Troppo poco.

Foto Carlos Ramirez/Getty Images


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