Welfare & Lavoro

Faccio due chiacchiere con chi neanche so se mi sente

A Bologna venti ragazzi scout, fra i 18 e i 20 anni, da oltre un anno fanno volontariato con i pazienti in stato vegetativo. Un libro racconta questa innovativa esperienza. Nella VI Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi abbiamo cercato l'autrice, Cristina Petit

di Sara De Carli

«Tra le possibilità di tragedia che avevo previsto per me e la mia famiglia, era più plausibile un rapimento»: invece Irene si trova a fare i conti con un padre in stato vegetativo, per via di un incidente in moto. «È difficile decidere cosa essere e allora ho scelto di essere normale. Sto imparando una vita nuova o meglio ho scelto di impararla. Perché alla fine puoi reagire in tanti modi. Potevo cadere in depressione, potevo non accettare il fatto, potevo non avere la forza di vedere papà così… invece mi sono buttata e ho deciso di andare avanti».

A raccontare la storia di Irene e di suo padre Luciano è il libro Salgo a fare due chiacchiere, scritto da Cristina Petit, da poco uscito per San Paolo. La loro è un pezzo di una storia più grande, messa in piedi da Irene stessa. Dal settembre 2014 venti ragazzi del Gruppo Scout Bologna 6 fanno volontariato accanto ai pazienti in stato vegetativo dell’Ospedale Santa Viola di Bologna. Questo libro racconta le loro storie, con le loro paure e loro grandi domande.

Loro che – come dice il medico responsabile del reparto – «sono una nota diversa in una melodia sempre uguale», e con il loro essere «colorati e spettinati» «portano l’irruenza e la velocità del mondo di fuori fra i nostri corridoi immobili, nel nostro tempo lento e apparentemente sempre uguale. I più lenti e i più veloci si ritrovano insieme e cercano di adeguare il passo per poter stare insieme». Abbiamo cercato l’autrice nel giorno della Sesta Giornata nazionale degli Stati vegetativi, data scelta – non senza polemiche – in ricordo della morte di Eluana Englaro (9 febbraio 2009).

Cristina, intanto dove ha casa questa storia?
Nell’Ospedale privato Santa Viola di Bologna, un ospedale privato convenzionato. I protagonisti, insieme ai pazienti in stato vegetativo, alle famiglie, ai medici e agli infermieri dell’ospedale, sono i ragazzi del Gruppo Scout Bologna 6. Nel settembre 2014 tutto il clan di ha iniziato a fare volontariato al Santa Viola, con i pazienti in stato vegetativo, sono una ventina di ragazzi dai 18 ai 20 anni, hanno accettato tutti: il libro racconta il primo anno di questo servizio.

Finito quel primo anno, ora, che è successo?
La proposta scout è di un servizio che dura un anno, solitamente l’anno dopo si cambia proposta per conoscere nuove realtà: alcuni ragazzi stanno continuando a fare volontariato a titolo personale e inoltre, visto che sia gli scout sia l’ospedale hanno valutato come estremamente positiva l’esperienza, quest’anno il servizio è stato proposto a un secondo gruppo di ragazzi. Quindi in reparto oggi ci sono ragazzi diversi, ma il servizio continua.

Tu come hai saputo di questo gruppo di volontari?
Il Bologna 6 è il mio gruppo di scout, anche se io con i bambini non sono più attiva in prima alinea. Irene comunque – si chiama davvero così e la storia sua e di suo papà Luciano è tutta vera (in foto) – è una mia carissima amica, abbiamo fatto cui ho fatto tanti anni di scout insieme. È stata lei a proporre al reparto l’idea del volontariato, poi l’ha proposta ai capi e la cosa è cominciata. Non pensava tanto al beneficio che potevano averne le famiglie dei pazienti ma soprattutto a quanto questa esperienza potesse essere ricca e formativa per i ragazzi. È nato tutto così. Naturalmente i ragazzi non sono stati mandati in reparto allo sbaraglio, prima c’è stata una lunga preparazione con il primario che ha spiegato, risposto alle domande, poi la prima visita ai pazienti… Lì uno poteva decidere se impegnarsi o meno, hanno accettato tutti.

Esistono esperienza analoghe?
Che sappia no, ma non lo posso escludere. Di certo qui qesta esperienza è stata vissuta come una sfida, un “proviamo” e molto lo si deve al dottor Erik Bertoletti che ci crede molto, ha trascinato tutti e ha fatto fidare tutti di questa intuizione di Irene.

L’idea del libro invece?
In reparto lavora un’associazione che ha visto Irene così presente e le ha chiesto di scrivere un libretto in cui raccontasse il punto di vista del figlio di una persona in stato vegetativo. Irene ha chiesto a me, io scrivo e illustro libri per bambini, la malattia non è molto nelle mie corde, ma non potevo dirle di no. A quel punto però abbiamo cercare un editore vero, in modo che il messaggio arrivasse a più persone.

Perché hai scelto di parlare direttamente ai giovani?
I protagonisti sono ragazzi. Non si pensa mai davvero alla possibilità di finire in stato vegetativo, non ci si pensa da adulti, figurati da ragazzo: pensi ai poveri, ad altre malattie ma non a questo… Pensavamo che questa esperienza, raccontata con le voci di ragazzi, potesse avere qualcosa da dire ad altri ragazzi che magari stanno buttando tempo litigando con i loro padri. Ciò non toglie che sia un libro per tutti.

Vedere questi giovani uomini e donne qui tra noi, tra i più dimenticati da tutti, è bellissimo. Loro portano l’irruenza e la velocità del mondo di fuori fra i nostri corridoi immobili, nel nostro tempo lento e apparentemente sempre uguale. I più lenti e i più veloci si ritrovano insieme e cercano di adeguare il passo per poter stare insieme

I ragazzi come hanno vissuto questa esperienza?
Il contrasto fra la velocità del fuori e l’immobilità del reparto è la cosa che ti sciocca di più. Il timore più grande era il non poter sapere esattamente “qui cosa succede”: cosa capisce una persona in stato vegetativo? Perché “se capisce tutto è un casino”, se non capisce da un certo punto di vista è meglio, “ma allora io a cosa servo?”. È una situazione in cui si inanellano domande. Cosa rispondono? Alcuni dicono io servo alla famiglia, altri dicono questo serve innanzitutto a me, mi fa vedere la mia vita in un’altra prospettiva – alcuni appunto hanno ripensato i loro rapporti con i genitori – alcuni, ma devo dire meno, arrivano a riconoscere che la loro presenza dà qualcosa anche per i pazienti. Una risposta non c’è, magari un giorno sentono più una cosa e il giorno dopo più l’altra.

E le famiglie?
Tutte molto contente, tant’è che tutte hanno aderito.

Nella Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi, questa esperienza cosa dice?
Dice che la vita è vita in tutte le sue forme ed è disarmante vedere quante forme di vita ancora non ci rendiamo conto che esistano soltanto perché non le vediamo o non ci pensiamo.

Nella foto di copertina, Irene e suo padre Luciano, per gentile concessione della stessa Irene


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