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Il terzo settore e la sfida della coerenza sui diritti

Lo schema classico era un tempo quello di un profit caratterizzato da un proprietario con i suoi dipendenti e di un no profit come luogo di condivisione, cogestione e azione comune. Invece, paradossalmente, sembra ormai più democratica una S.p.A., in cui almeno anche i piccoli azionisti qualcosa la possono dire, che molte organizzazioni (in maniera trasversale, dalle più piccole alle più grandi) che formalmente prevedono organismi democratici, ma nella realtà sono strutture monocratiche.

di Marco Ehlardo

Nel nostro Paese esistono centinaia di migliaia di associazioni ed organizzazioni, ognuna impegnata nella tutela di uno o più diritti. Diritti dei lavoratori, dei migranti, degli animali, e decine di altre tipologie. Con continue campagne per la tutela di questo o quel diritto, al grido di “i diritti sono irrinunciabili!” et similia. Con tanto dispiegamento di forze, logica vorrebbe che l’Italia fosse uno dei luoghi, se non il luogo, in cui i diritti sono più tutelati. Ma non è così. Anche perché c’è un piccolo problema. Non sempre e non tutte queste organizzazioni sono poi così tanto attente alla tutela dei diritti quando tocca a loro farlo.

A Napoli diciamo “fa' chello ca dico io ma nun fa’ chello ca facc’io”. Tradotto ed interpretato significa: fai quello che io dico, ma non fare quello che io faccio (dove è sottinteso che quello che faccio è il contrario di quello che dico).

La coerenza del terzo settore sui diritti dovrebbe esserne un tratto distintivo. Mi sono interrogato ancor più su questo nei giorni scorsi, durante la discussione sulle unioni civili, in cui ci si divide tra chi è favorevole a un diritto e chi è contrario (in nome, ovviamente, di altri diritti!).

Mi chiedevo: quante di queste organizzazioni, che vedi in piazza ogni volta che c’è da manifestare per qualcosa, sono poi così coerenti?

Primo esempio, il rapporto del terzo settore con i suoi lavoratori. Le normative sul lavoro, a partire dallo Statuto dei Lavoratori fino alle successive riforme (Fornero e Jobs Act) danno alle organizzazioni del terzo settore ampia libertà di movimento, soprattutto sui licenziamenti. Ad ogni riforma, assistiamo a numerose e partecipate manifestazioni di protesta (o comparsate in TV), con in prima fila una buona parte del terzo settore.

Che, poi, al suo interno ha coerentemente evitato di applicare queste nuove norme, così fortemente contestate? Non mi risulta. Sicuramente non nella sua interezza. Tutto legale, sia chiaro. Ma la questione non è la legalità. La questione è che così il no-profit ragiona con la stessa testa del profit. Dunque non è coerente a se stesso.

Altro esempio la democraticità delle organizzazioni. A mio avviso, al di là degli aspetti fiscali e sulla non redistribuzione degli utili, questo è il tratto che dovrebbe di più qualificare il terzo settore dal mondo profit.

Lo schema classico era un tempo quello di un profit caratterizzato da un proprietario con i suoi dipendenti e di un no profit come luogo di discussione collettiva, condivisione, cogestione e azione comune. Invece, paradossalmente, sembra ormai più democratica una S.p.A., in cui almeno anche i piccoli azionisti qualcosa la possono dire, che molte organizzazioni (in maniera trasversale, dalle più piccole alle più grandi) che formalmente prevedono organismi democratici, ma nella realtà sono strutture monocratiche, che replicano proprio lo schema proprietario/dipendenti.

Ed in cui il ruolo dei lavoratori (ma anche ad esempio dei soci) è assolutamente marginale se non nullo. Lasciamo stare, poi, il tema della “pulizia” del e nel terzo settore. Questo è un tema che riguarda la legalità, e che quindi investirebbe ogni settore della nostra società, non solo il nostro. E gli ultimi dati sulla corruzione che danno l’Italia al 61mo posto, penultima in Europa, non sono certo confortanti. Soprattutto considerando che i finanziamenti del terzo settore continuano a dipendere fortemente da risorse pubbliche, e quindi dai rapporti con politica e amministrazioni. Questo credo che debba essere il punto focale di una riforma del terzo settore: restituire chiarezza e fissare paletti rigidi sulla differenza tra profit e no profit. Non mi pare si stia andando esattamente in quella direzione, anzi. Spero di sbagliarmi, ovviamente.

Perché il no profit è sì un settore economico importantissimo, ma non può ridursi solo a quello. Tantomeno può diventare un business ed assumerne totalmente le logiche. Pena il rischio di erodere, e alla fine cancellare, quel “no“ davanti alla parola profit che ne fa un settore a se stante.

Per non finire di ridurre il tutto alla mera tipologia di prodotto: chi vende automobili o hamburger e chi vende pezzi di welfare o, peggio, diritti.


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