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Quando Donald Trump gioca d’azzardo. E perde

L'impero del miliardario americano si fonda su un nome, il suo, e conosce un unico comandamento: non nominarlo invano. Oggi che ha vinto le primarie del New Hampshire quel nome appare sinonimo di successo, ricchezza, indipendenza da ogni lobby. Eppure, nel settore dell'azzardo dove continua a tenere più di un piede le cose a Donald Trump non sono mai andate bene. E il dibattito si infiamma

di Marco Dotti

C'è chi detesta Trump, c'è chi lo ama. C'è chi né lo detesta, né lo ama, ma per diversi motivi lo teme. In ogni caso con Trump si esprime una aspetto spesso in ombra della società americana. Ma il miliardario manda in cortocircuito anche due punti precisi dell'etica di questo Paese, capitalista, calvinista o evangelica che dir si voglia: non si è fatto da sé, la sua fortuna è frutto più di rendite che di libera impresa e, soprattutto, ha un piede o forse due nell'industra dell'azzardo. Cosa che, da queste parti, è lecita ma a patto di duri compromessi. Per i Repubblicani quelli di Trump appaiono però svarioni, più che compromessi e, alla lunga, può anche accadere che le tante partite giocate, e perse, da Trump sul tavolo della diffusione dell'azzardo in America abbiano il loro peso.

The Looser

La storia recente, anzi recentissima di Trump con i casinò e il machine gambling è stata tutta un fallimento. Sembra più un lobbista nostrano, che un rappresentante della "superclasse" di mega mega ricchi americani.

A Trump non piacciono le restrizioni di legge che limitano pratica dell'azzardo e apertura di case da gioco. Non è un discorso generale, il suo. Il suo è un discorso personale: non gli piace ciò che ostacola Lui, Donald Trump, l'eletto da sé. Solo che non è Napoleone.

La vicenda è lunga e complessa, ma per farsene un'idea basta leggere quanto scritto il 19 settembre scorso Rosalind S. Helderman sulle pagine del Washington Post, in un articolo significativamente titolato How Donald Trump tried — and failed — to open a casino in Florida, ossia "Come DT ha provato – fallendo – di aprire un casinò in Florida".

Anche a Atlantic City le cose non vanno poi troppo bene per Donald Trump, che nel 2014 ha dato mandato ai suoi legali affinché il proprio nome venisse rimosso dalle insegne dei casinò della strip. Paventando il disastro – e attribuendo ai gestori il mancato rispetto di determinati standard di qualità – Trump ha cercato di correre ai ripari contestando persino alla sua stessa società (non è un folle, sia chiaro: c'è molta scaltrezza in quest'uomo) di non aver rispettato gli standard di iperlusso che il suo nome esige e pretende. Tutto inutile perché il 16 settembre 2014 a crollare è stato non un cartello, ma l'intera struttura finanziaria del Trump Plaza Hotel & Casino, con i suoi circa 1000 dipendenti.

Nel frattempo, il nome Trump o, meglio "Il Nome", è rimasto sul Taj Mahal. Una brutta storia, secondo molti, che nasconderebbe anche il tentativo della Trump Entertainment Resorts, società fondata nel 1995 ma interamente ridisegnata nel 2009, di rifarsi il trucco dopo la bancarotta del settembre del 2014 e le conseguenti azioni sindacali intraprese dalle associazioni dei lavoratori.

Va detto che il 15 gennaio scorso una pronuncia della Corte d'Appello ha dato ragione a Trump alterando profodamente, secondo alcuni analisti, gli equilibri fra debitore e creditori, ossia tra (ex) datore di lavoro e lavoratori. Una brutta storia dicevamo o, semplicemente, un "gran casino". Come sempre capita, quando c'è di mezzo Donald Trump.

Nomen omen

Già nel febbraio del 2009 la sua società aveva fatto istanza di fallimento. Trump, allora, se l'era "giocata" cercando un accordo con Andrew Beal, proprietario dell'omonima banca, rinomato giocatore di poker dalla fortuna personale quantificata da Forbes in 7,6miliardi di dollari, quasi il doppio di quanto attualmente possiede Trump, che si attesta sui 4,6miliardi.

Niente di fatto, anzi: si scatenò una guerra, perché nel frattempo Beal intraprese la ristrutturazione di un altro casinò con Carl Icahn, ventiseiesimo uomo più ricco al mondo, spesso accusato di lavorare su castelli di carta, i cosiddetti junk-bond.

La storia tra Icahn e Trump aprirebbe una altro capitolo. Ma limitiamoci alla nostra storia, che è continuata tra debiti fa pagare, ristrutturazioni di cemento e di carta per garantire quei debiti fino allo scontro finale, quello sul "nome". Perché alla fine di tutte le storie, nelle vicende di Trump, quando si parla di garanzie reali e di controversie molto complesse tutto sembra ridursi a un elemento molto semplice: il suo nome.

D'altronde, lo slogan della Trump Entertainment Resort parla chiaro e fuori dai denti: "One name says it all!". Un nome dice tutto, il resto sono chiacchiere.

L'azzardo sui piedi

Nessuno si è meravigliato nel settembre scorso quando, presentata la sua candidatura, durante un infuocato dibattito alla CNN Donald Trump con la faccia tosta di sempre ha cominciato a battere il tasto della sua slot personale affermando di non aver mai voluto far pressioni e importare il gioco d'azzardo in Florida. "Falso!" hanno subito accertato gli esperti di fact checking.

Nel corso del dibattito, Jeb Bush, che della Florida è stato governatore per due mandati, dal 1997 al 2009, si è subito preso il merito di aver affossato i sogni di onnipotenza e d'azzardo di Trump. "Vero!" è stata la chiosa di chi i fatti li doveva accertare.

Ne è uscito un piccolo, ma non piccolissimo scandalo. Una semplice tessera, ma in un domino molto complicato:

quando Jeb Bush era impegnato nella campagna elettorale che, poi, lo vide eletto come nuovo governatore della Florida, Trump cercò un incontro con alcuni suoi collaboratori e alleati. Lo scopo di Trump era rendere più morbide e malleabili le restrizioni sull'azzardo in Florida. Detta in stile Trump: aprire un casinò, in collaborazione con alcuni nativi delle tribù indiane d'America, e impiantarci distese di slot e roulette.

L'uomo avvicinato nel 1998 da Trump sarebbe statto John Thrasher. E c'è una questione di finanziamenti alla campagna elettorale di Jeb Bush. Soldi legittimamente dati e lecitamente presi, ma senza che Trump ottenesse lo scopo.

Quando Donald Trump chiese alla Florida di aprire un casinò, risposi di no

Jeb Bush, 16 settempre 2015, dibattito alla CNN

Come sono andate le cose

Trump effettivamente appare tra i finanziatori della campagna di Jeb Bush, nello Stato della Florida. Negli anni '90, Trump stava cercando tutte le strade per aprire un case da gioco in Florida, ma aveva un problema: le leggi glielo impedivano.

Secondo fonti attentibili, Trump raccolse 500 mila dollari per la campagna di Bush. Altri soldi – 50mila – vennero donati al Partito Repubblicano della Florida dal Trump Hotels & Casino Resort. Fu allora che Trump incrociò il sentiero dei Seminole, Questi indiani, posata l'ascia di guerra e il tomahawk, si sono dati al business dell'azzardo.

Negli USA esistono facilitazioni per l'apertura di casinò tribali legate al "pacchetto-compensazioni" fatte alle tribù native per i massacri subiti e le terre espropriate.

Nulla di meglio, per Trump, che questo Cavallo di Troia, visto che i Seminole erano a loro volta particolarmente interessati al giro delle slot machine che Trump gestiva con fortune alterne a Las Vegas. Il business dei nativi nel settore del gambling, anche se confinato in certe enclave, si aggira sui 20miliardi di dollari l'anno. Non poca cosa.

Ma torniamo a Trump che oggi gioca a fare lo sceriffo, ma ieri giocherellava a fare l'indiano. Nel 1998 Trump appoggia e sostiene, da buon lobbista, una proposta dei Seminole. E prospetta anche un buon business per le casse dello Stato: vi diamo parte dei ricavati in tasse, e voi allentate il freno. Insomma, la solita storia del welfare pagato (comprato, si dovrebbe forse dire) con i soldi dell'azzardo.

La coda lunga di chi non sa far lobby

Tutto bene? Tutto a posto. Non proprio perché, piaccia o meno, Jeb Bush non ha mai messo piede in alcun consiglio di amministrazione di casinò. E sono pochi i politici amaricani a potersi vantare di questo. Anzi, nel 1996 Jeb Bush aveva organizzato un movimento antiazzardo. Incassati i soldi come una normale donazione, il Partito Repubblicano fa melina. Ma Bush dice picche, lui è più sbrigativo: nel programma elettorare non ci sarà alcuna apertura al gioco d'azzardo in Florida. Programma a cui ha tenuto fede, è un fatto.

Morale della storia: non sempre chi fa lobby ha quella lungimiranza e quella potenza che attribuiamo a priori a questa strana categoria di uomini. La politica può decidere, se vuole decidere. Lobby o non lobby.

L'11 dicembre 2005 fu Bloomberg Business a parlare della rabbia di Trump contro un suo apprendista. Gli accade spesso, quando le cose vanno male, di licenziare qualcuno dei suoi consiglieri.

In questo caso, la mala parata ha investito Richard T. Fields che negoziò a suo nome con i Seminole per costruire case da gioco sui loro terreni. L'interesse di Trump era orientato al business del machine gambling, slot machines e compagnia bella. Non ottenne nulla e si infillò in quel groviglio che, in qualche modo, avrebbe trascinato sul fondo la Trump Entertainment. Salvo che il "Nome", oggi, si è tirato a lucido e si presenta ai dibattiti fiero del luogo comune che lo vorrebbe senza macchia e senza parua. Dicono i suoi sostenitori: "non ha mai preso soldi dalle lobby". Forse è vero, ma quando ha provato a far lobby da sé i risultati parlano di una catastrofe.

Evangelici contro Trump

Lo scambio di battute al vetriolo durante il dibattito alla CNN del 16 settembre scorso ha riaperto questa storia da molti dimenticata, ha acceso gli animi e attirato contro Trump la scoperta ostilità della variegata e complessa costellazione delle fedi evangeliche, sempre molto dure nel condannare il business dell'azzardo.

"Donald Trump chieda perdono a Dio per il suo sostegno al gioco d'azzardo" ha tuonato il reverendo Mark H. Creech sulle pagine del Christian Post del 27 luglio 2015.

Non bastasse intervenendo pochi giorni fa alla CNN, il leader evangelico Russell Moore, capo della Southern Baptist Ethics & Religious Liberty Commission, ha apostrofato Trump come distruttore di legami e di famiglie, in particolare per il suo coinvolgimento nel business dell'azzardo. Trump, secondo Moore, non ha mai fatto nulla per meritarsi i il perdono di Dio. Conseguenza implicita di questo discorso: se diventerà Presidente, le sue colpe ricadranno su di noi. "God bless America", insomma: che Dio ce ne scampi.

Un bel problema per Donald, che ama presentarsi come agnello, ma che sempre più, nel cuore dell'America profonda alla quale si vanta di dar voce, cominciano a trattare come lupo sotto mentite spoglie.

Il movimento anti-azzardo Stop Predatory Gambling ha stilato una lista di Repubblicani che si sono opposti alla diffuzione del gambling di massa. Eccola: Jeb Bush, Ted Cruz, Lindsey Graham, Mike Huckabee , Bobby Jindal, Rick Perry, Marco Rubio, Rick Santorum e Scott Walker . Trump è stato messo fuori. Quanto possa pesare questo aspetto nella sua campagna e per i voti che intende raccogliere è ancora presto per dirlo.

Ma non è solo questione di fede, etica o morale puritana. Come ha scritto Michael Gerson sulle colonne del Washington Post è, soprattutto, questione di corruzione e di lotta alla povertà diffusa. Osserva Gerson, con una lezione che dovrebbe essere imparata anche in Italia:

L'azzardo legale, con tutto il suo gioco di pressioni, interessi, tentativi di deleghe, riforme, riformette è tra i principali fattori che contribuiscono alla corruzione politica e alla collusione istituzionale.

L'azzardo è una forma particolarmente invasiva di "financial predation against the poor", di predazione finanziaria contro i poveri.

Ecco il vero punto della questione. Un punto su cui i candidati alla Presidenza degli Stati Uniti non si sono risparmiati colpi. Alcuni andati a vuoto, altri andati a segno. Ma siamo solo all'inizio e, c'è da credere, dopo i colpi a vuoto arriveranno presto anche i colpi bassi. Anche quelli ci aiuteranno a capire.


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