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Cooperazione & Relazioni internazionali

Mentre l’Europa dorme Aleppo sotto assedio ha le ore contate

Il regime di Assad, sostenuto dalle milizie sciite iraniane e libanesi di Hezbollah, ha lanciato una controffensiva sulla città siriana, seguito da una campagna di bombardamenti no-stop da parte degli alleati russi. Migliaia di persone in fuga verso la Turchia. Il servizio da Gaziantep, cittadina nel sud-est turco

di Eleonora Vio

Da Gaziantep – «È assurdo che i leader europei riassumano tutta la questione nei due vaghi concetti di rifugiati e Stato Islamico», dice Muhannat Othman, responsabile delle Pubbliche Relazioni per l’organizzazione siriana Sham Humanitarian, al ritorno dalla Conferenza per i Donatori della Siria, tenutasi a Londra il 4 febbraio. «Mentre milioni di persone hanno perso tutto, e centinaia di migliaia rischiano di morire di fame e freddo, l’unica cosa di cui ci si preoccupa è che “i rifugiati” non lascino le coste turche creando problemi all’Europa». In poco meno di due settimane la situazione in Siria è degenerata ancora, questa volta irreversibilmente. Se a migliaia di chilometri di distanza i negoziatori parlano freddamente di “cessare le ostilità”, senza interessarsi all’odierna e devastante realtà dei fatti nel Paese, nella gigantesca enclave siriana di Gaziantep la guerra si tocca con mano, e l’atmosfera si fa ogni giorno più cupa, anche a causa delle bombe che colpiscono indiscriminatamente presidi medici, scuole e ospedali (uno era quello di Medici senza frontiere) facendo strage di bambini. Mentre il numero di siriani in attesa al confine turco aumenta progressivamente, e gli aerei russi si accertano che anche i pochi rimasti se la diano a gambe, due quesiti rimbombano nella testa di tutti: che ne sarà di Aleppo, anima della Rivoluzione, e delle centinaia di migliaia di persone che, senza preavviso, hanno dovuto scegliere tra il diventare “rifugiati” senza un volto né un nome, o restare nel buio delle macerie che ancora chiamano case?

Nei giorni che hanno preceduto il 3 febbraio, quando migliaia di siriani hanno cominciato a riversarsi verso il confine settentrionale di Bab al-Salama nella vana attesa di trovare rifugio in Turchia, il regime di Assad sostenuto dalle milizie sciite iraniane e libanesi di Hezbollah ha ripreso il controllo delle due strategiche località di Nobul e Zahra, interrompendo la strada, e la principale linea di approvvigionamento, tra le zone controllate dall’opposizione nell’est di Aleppo e la Turchia. All’offensiva sciita è seguita una campagna di bombardamenti no-stop da parte degli alleati russi. Da una parte centinaia di migliaia di persone sono dovute scappare dalle zone rurali a nord di Aleppo verso la Turchia, nota fino a qualche tempo fa per la sua “open policy” ma recentemente molto più cauta, o si sono piegati ai vicini curdi, sempre più impegnati in negoziazioni con Mosca e Damasco, dall’altra a essere colpito è stato il cuore semi-assediato di Aleppo, e ai suoi residenti è stata data la poco allettante alternativa di raccogliere le proprie cose e andarsene a Idlib – controllata dalle forze ribelli – e intraprendere l’ancora accessibile strada verso ovest, piuttosto che rimanere in città e aspettare che si compia il massacro.

In tanti siriani concordano con l’analista Serhat Erkmen, quando dice che, «il piano dei russi e del regime era chiaro fin dall’inizio e consiste nel procedere per gradi all’assedio di Aleppo», ma solo dopo aver messo al sicuro la regione nord-orientale di Latakia, come si è visto qualche settimana fa, e continuando a bombardare a tappeto le aree vicine a Idlib a ovest e al confine turco a nord. È utile però guardare anche alla «più grande crisi umanitaria dopo la Seconda Guerra Mondiale come a

una gigantesca e strategica manovra etnica,» aggiunge poi. Le operazioni militari senza tregua dentro e fuori Aleppo hanno sfinito la popolazione e subdolamente indotto migliaia di persone ad andarsene senza guardarsi indietro. «Il fine non è solo quello di far morire di fame le persone come a Madaya», continua Erkmen, «ma di farle allontanare il più velocemente possibile, per impossessarsi subito di Aleppo e dintorni. Se la gente persiste a non volersene andare, l’assedio da parte del regime e alleati si compirà comunque, ma con tempi più lunghi e sforzi umani e bellici molto maggiori».

Parlare di numeri nel contesto siriano, dove le vittime di guerra e le tante persone dislocate internamente, o esternamente, sono fondamentali per le dinamiche stesse del conflitto e sono spesso utilizzate come strumenti politici, è complicato, e non resta che contare sulle voci di attori super partes, impegnati direttamente in Siria o in operazioni cross-border con la Turchia. Le stime delle organizzazioni siriane Sham e Syrian Expatriate Medical Assistance (SEMA), confermate dal capo del gruppo degli esperti dell’Ufficio per la Coordinazione delle Questioni Umanitarie dell’ONU (OCHA), che ha chiesto a VITA di non essere nominato, parlano di circa 150,000 persone fuggite dai villaggi a nord e dal centro di Aleppo. Dei 45,000 individui che hanno trovato rifugio a nord di Azaz, in 37,000 si trovano nei campi di Bab al-Salama adiacenti al confine turco, mentre i restanti sono accampati in rifugi temporanei o all’aperto. Le altre 100,000 persone si sono riversate a ovest verso Idlib. «La sensazione è che se le cose si metteranno veramente male ad Aleppo», spiega il dottor Omar Mahmoud Aswad di SEMA, «altre 100,000 persone si dirigeranno verso Idlib, dove momentaneamente c’è un cessate il fuoco tra Jaish el-Fatah (o l’Esercito di Conquista, che conta tante fazioni ribelli islamiste) e il regime, ma dove gli attacchi russi continuano imperterriti e rischiano di aumentare ancora». Nel cuore di Aleppo, che un tempo era la città più popolosa della Siria con oltre 2 milioni di abitanti, ci sono ancora 250,000 tra combattenti e civili ma, se quello che dice Aswad è vero, e quindi sempre più persone si allontaneranno verso ovest, si spiega perché il coordinatore dell’OCHA ritenga che, «a essere colpite direttamente dall’assedio della città alla fine saranno i 150,000, che preferiranno morire nelle loro case invece di vivere da esuli».

Le proporzioni della tragedia sono immaginabili e, nonostante gli sforzi fatti dalle organizzazioni umanitarie e mediche, assieme al Consiglio Locale di Aleppo, per tamponare la crisi in atto e prevenire la catastrofe che verrà, è difficile essere fiduciosi.

Il distretto di Azaz, poco distante da Bab al-Salama e dalla città turca di confine di Kilis, sta pagando uno dei prezzi più alti di questa guerra brutale, e l’offensiva dei caccia russi si sta rivolgendo non solo contro i civili e le loro risorse, ma anche contro le strutture ospedaliere. Se tanti dottori sono stati costretti a darsela a gambe, molti ospedali sono stati chiusi all’improvviso o rasi al suolo, e i servizi per gestire le emergenze ridotti al minimo. «Il 3 febbraio abbiamo perso una delle nostre strutture nei pressi di Tall Rifaat», spiega il dottor Salah, responsabile di uno degli ospedali da campo di Bab al-Salama e membro dell’Associazione dei Dottori Indipendenti (IDA). «La prima settimana dall’inizio della nuova emergenza abbiamo curato una settantina di casi gravi – come traumi cerebrali o vascolari – all’ospedale di confine, casi che stanno venendo trasferiti negli ospedali in Turchia, ma i problemi non si limitano a questo». Alla Turchia sono affidati i feriti più a rischio provocati in gran parte dagli attacchi aerei russi, ma «le migliaia di persone, che sono fuggite senza niente dalle loro case, hanno bisogno di tende, coperte, cibo, acqua potabile e, dopo tutti quei giorni passati al freddo, tante medicine per combattere i sempre più diffusi casi d’infezioni alle vie respiratorie, polmonite e diarrea». Nessuno avrebbe potuto immaginare che così tanti, e in così poco tempo, avrebbero cercato rifugio al nord – tra il campo di confine di Bab al-Salama, gestito da IDA e l’organizzazione umanitaria turca IHH, e i tanti campi che puntellano e si espandono nel nord della Siria – ma, soprattutto, «nessuno si sarebbe immaginato che Aleppo venisse tagliata fuori e tutti gli sforzi sono ora coordinati per far entrare le provvigioni in città prima che la strada per Idlib, l’unica rimasta verso l’esterno, sia interrotta dal regime».

Tanti aleppini sono scappati a ovest, dagli amici e parenti a Idlib e dintorni. Nonostante questa sia, assieme alla zona di Azaz, una delle aree più colpite dalla recente e coordinata offensiva tra il regime siriano e gli alleati russi, la posizione geografica e la dispersione della città nel territorio ne fanno una preda meno accessibile, per il momento, rispetto ad Aleppo. Essendo la strada per Idlib, però, l’unica porta dei siriani verso la Turchia, e verso qualunque speranza in un futuro all’apparenza migliore, c’è anche chi, una volta lasciato il proprio cumulo di macerie dietro di sé, decide di tentare il tutto e per tutto e investire gli ultimi soldi per lasciare il paese. Se fino a poco

tempo fa Bab al-Salama e Bab al-Hawa – in prossimità della città turca di Reyhanli, nella provincia di Hatay – erano i passaggi privilegiati degli scambi legali e illegali, a causa dei nuovi e violenti controlli delle forze armate turche, gruppi di siriani disperati pagano ora i trafficanti per entrare nel Paese attraverso la regione montuosa, coperta di boschi e ricca di ostacoli, di Jabal el-Turkman.

Nonostante tutto, la questione centrale rimane la stessa: fare tutto il possibile affinché Aleppo continui a resistere ai quotidiani bombardamenti e al vicinissimo assedio. Per farlo, sono necessari sforzi congiunti per accumulare in città tutte le risorse indispensabili alla sopravvivenza della sua gente. Per quel che riguarda il cibo, le coperte e i medicinali, gli aiuti continuano a entrare ad Aleppo su cargo che partono dalla Turchia, lungo la strada che passa per il confine di Bab al-Hawa, Al-Attareb e Kafr el-Hamra. «Con UNICEF tra qualche giorno consegneremo 4560 scatole di principi nutritivi per almeno 10,000 bambini sotto i tre anni», dice Muhannat Osman di Sham Organization, «e la scorsa settimana abbiamo cominciato la distribuzione di farina, lavorata nei due panifici che gestiamo, ma se continua così dovremo passare direttamente alla consegna del pane». Infatti, i panifici, assieme agli ospedali, sono un altro target per gli attacchi del regime, e non si sa per quanto ancora riusciranno a rimanere in attività.

«Con il quasi totale supporto dell’Esercito Siriano Libero (FSA) ci occupiamo della pulizia delle strade, del mantenimento di metà delle infrastrutture per l’elettricità e l’acqua potabile – l’altra metà è gestita dal movimento filo-qaedista di Jabhat el-Nusra – e di un’altra grossa fetta di distribuzione di beni alimentari», spiega Osama Taljo, uno dei 25 membri del Consiglio Locale di Aleppo, «ma il problema più grosso è la mancanza di carburante». In una città dove i macchinari per il sistema di raccolta dei rifiuti e

il drenaggio delle acque, gli ospedali, i panifici e le ruote per generare elettricità si basano esclusivamente su questa risorsa, qualunque intervento umanitario è fallimentare se prima non si risolve questa questione. La strada per, e da, le aree controllate dallo Stato Islamico, da cui l’opposizione è stata più volte costretta a rifornirsi, è interrotta; il prezzo del carburante introdotto da Idlib continua a crescere, ed è destinato a esaurirsi; e la soluzione più logica, che la Turchia aiuti ancora una volta i suoi compagni ribelli contro il regime, è in stallo da molto tempo. «È da un anno che noi, e anche OCHA a nome delle varie organizzazioni, stiamo facendo pressioni al governo turco perché introduca carburante ad Aleppo ma, nonostante le tante promesse, non è stato fatto ancora nulla», dice Taljo. «Abbiamo stilato un piano dettagliato per sei mesi per l’emergenza umanitaria in arrivo, ma dei più di 5 milioni di litri di carburante di cui abbiamo bisogno, non abbiamo ancora visto nulla».

All’ultimo faccia a faccia tra l’Alleanza delle Organizzazioni Non Governative Siriane e OCHA, tenutosi sabato 13 febbraio a Gaziantep, la portavoce dell’Ufficio di Coordinamento dell’ONU Barbra Shenstone ha ammesso che, «a causa dell’impossibilità di trovare una soluzione politica, ci siamo dovuti focalizzare sull’aspetto umanitario». Con migliaia di persone in attesa di fronte a un confine ancora rigidamente serrato, e i pareri discordanti su una sua eventuale futura apertura, e i passi indietro mossi dalle autorità turche di fronte all’opposizione siriana in crescente ed evidente difficoltà, ci si domanda se le due questioni, politica e umanitaria, possano, però, essere risolte indipendentemente. «OCHA e l’ONU hanno aperto gli occhi, e denunciato l’assedio e massacro che si stava compiendo a Madaya, solo dopo tutte le immagini circolate sui media», denuncia Ghiath Mohamed dell’associazione Ghiras el-Nahda. «Per Aleppo ci aspettiamo che agiscano subito, e in tutti i modi possibili, prima che sia troppo tardi e il regime ricorra ancora all’assedio e alla fame come armi di guerra».

Tutte le foto sono a cura di Pilar Cebrian e Syrian Civil Defence


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