Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Welfare & Lavoro

Comunità come “fenomenologia” territoriale

Il dibattito sulle comunità locali come dispositivi di sviluppo territoriale sta mantenendo negli ultimi anni un crescente e costante interesse mediatico. A dirlo sono anche alcuni dati globali provenienti da Google nella sezione analitica dei Trends

di Luca Tricarico

Il dibattito sulle comunità locali come dispositivi di sviluppo territoriale sta mantenendo negli ultimi anni un crescente e costante interesse mediatico. A dirlo non sono soltanto i contenuti dei contributi della piattaforma cheFare (in una ricerca per contenuti circa 100 contributi utilizzano il termine), ma ad esempio alcuni dati globali provenienti da Google nella sezione analitica dei Trends (nel periodo 2008 – 16, in particolare del termine “community” applicato alla categoria notizie).

L’utilizzo del sostantivo comunità è affiancato, nel linguaggio dei mezzi di comunicazione, a qualsivoglia tradizionale concetto, per identificare le più disparate scelte localistiche ed in generale avvalorare l’azione politica (ed imprenditoriale) in una prospettiva di maggior consenso e risalto.

Nella ricerca sulle politiche territoriali questo interesse è evidente in una serie di saggi che hanno trattato il tema a partire da una serie di interessanti prospettive:

  • An Introduction to Community Development (Philips, 2015), in cui si tratta del legame tra le comunità e le teorie di sviluppo locale, analizzando le connessioni con le teorie del capitale sociale, gli strumenti di ricerca sociale ed il legame con la pianificazione strategica.
  • Reconsidering Localism (Davoudi&Madanipour, 2015), in cui si analizzano pratiche e significati specifici legati alla devolution locale nella pianificazione territoriale.
  • Community Action and Planning: Contexts, Drivers and Outcomes (Gallent&Ciaffi, 2014), in cui si osservano pratiche di azione locale della comunità, più o meno legate alla spinta abilitante delle politiche pubbliche.

È interessante osservare come la questione comunitaria ed il rinnovato interesse sul tema deriva dall’attenzione che il concetto sembra attirare nelle forme ampie e variegate del linguaggio politico. Interesse che sembra crescere con la crisi della fiducia nelle formule di democrazia rappresentativa e della partecipazione politica, in quasi tutti i paesi con economie avanzate da almeno un quinquennio (su questo è interessante leggere i dati dell’Economist Intelligent Unit, in particolare nella macro-area europea).

La risonanza del concetto di comunità sembra giocare un ruolo utile alla ricerca di nuovi significati politici, in risposta alla riconosciuta incapacità dei top-down government e della burocrazia di rispondere nel garantire formule sostanziali di eguaglianza tra gli individui (Sen, 1990).

In questo senso l’azione di comunità evoca una “fenomenologia” di protagonismo sociale contro quello che Habermas (1984) ha definito come convinzione (degli apparati governativi) che i bisogni della società possano essere categorizzati e recepiti a distanza. Per gli appassionati delle teorie del planning, quello che Susan Fainstein (2000) definiva come difficoltà delle politiche territoriali di identificare un preciso “oggetto e soggetto” disciplinare.

In questa fase storica che Swyngedouw (2011) ha definito come “disappearance of the political”, e come “erosione della demorcrazia e della sfera pubblica”, il termine comunità sembra prestarsi nella restituzione di un significato alla “contestata emergenza di una configurazione socio spaziale post-politica o post-democratica”. Più in generale il termine viene assunto come legato a qualsivoglia forma di azione comunitaria (Gallent & Ciaffi; 2014:5) ossia la spinta verso il diritto – che gruppi di individui rivendicano – nel controllare ed avere la responsabilità diretta della propria esistenza.

Ovviamente il dibattito sulla “fenomenologia” comunitaria ha una lunga storia, ma ad oggi è interessante osservare il punto di arrivo degli ultimi anni. In questo senso il significato sembra assumere un mosaico di valori diversificato rispetto alle pratiche e agli ambiti che esso connota.

Nelle politiche sociali, ad esempio il concetto di comunità è popolare da parecchi anni. Da sottolineare la particolare enfasi del concetto nella progettazione di politiche di self-help e inclusione, in particolare legate ai settori sanitari, del social housing, nelle politiche di genere e nel welfare.

In termini di politiche pubbliche, le comunità vengono spesso identificate come nuclei di uno scenario policentrico. Unità protagoniste nella disgregazione e decentralizzazione del potere dello stato centrale, come strumento di trasferimento di responsabilità verso quella che alcuni definiscono come società civile, altri semplicemente come aggregazioni volontarie di individui .

Proprio per questa ambivalenza, le comunità sono anche state inquadrate come parte del fantomatico “shift in neoliberal public governance” (Moore & McKee, 2014:521) e dalla ritirata dello stato dall’ “erogazione diretta di beni pubblici, welfare e servizi; devoluti all’autonomia e alla responsabilità alla cittadinanza attiva e alle comunità” (Fyfe, 2005).

In una prospettiva sociologica, le affermazioni basate sul concetto (o a questo punto retorica) di comunità sembrano giocare un ruolo di risorsa locale contro i trend di globalizzazione (Hines, 2000) e le dinamiche perverse della città globale (Sassen, 2001), uno strumento per rinforzare i mercati locali e puntare sui fattori endogeni di crescita. Le comunità sono da considerare per il potenziale ruolo di dispositivo di accumulazione di “bracing social capital” (Rydin & Holman, 2004) utile alla sostenibilità delle iniziative locali e come viatico per le politiche di sviluppo locale.

Il crescente interesse nella letteratura riguardante gli studi di studi urbani fa riferimento a diversi ed articolati fenomeni rispetto al al ruolo giocato dalle comunità. A partire da diversi focus tematici, individuati da una certa letteratura, le interpretazioni sembrano dividersi in tre gruppi fondamentali:

1) Le comunità locali come insieme di valori sociali condivisi e di relazioni, come iniziative civiche di pressione per l’empowerment politico. Iniziative nate a partire da conflitti urbani derivanti dalle scelte politiche spaziali (Gualini, 2015). Con obiettivi simili, altre esperienze (istituzionalizzate e non) di questo genere sono sorte come iniziative civiche locali, movimenti sociali e comunità di pratiche.

2) Il coinvolgimento delle comunità locali nella co-produzione di piani, in formule collaborative di governance urbana o come target di politiche urbane sperimentali (Esperienze problematiche, come suggerisce Pasqui, 2010). Comunità come network ed aggregazione di interessi volti al raggiungimento di obiettivi di policy o all’indirizzo di trasformazioni urbane (Cremaschi, 2008).

3) Un terzo gruppo è composto da quelle che possiamo definire come asset-based community organizations (o comunità patrimoniali) che si affermano in contesti istituzionali favorevoli a formule di auto-organizzazione. Queste organizzazioni definibili come imprese di comunità (Le Xuan e Tricarico 2014), producono servizi utilizzando risorse locali e indirizzano la loro azione per soddisfare le esigenze collettive di una comunità di users. Non distanti da queste vi sono le formule (residenziali e non) di regolamentazione contrattuale di servizi e spazi e quindi formule auto-organizzate di sviluppo urbano, le cosiddette comunità contrattuali (Brunetta&Moroni, 2012).

Queste categorizzazioni rappresentano naturalmente un’estremizzazione più funzionale all’inquadramento degli ambiti di ricerca che al suggerimento di percorsi legati alle pratiche. Può infatti essere fuorviante un’analisi di complessi fenomeni sociali definibili come “azione di comunità”. Per citare Popper (1969), questa costruzione di categorie sociali non è attendibile, data l’imprevedibilità degli individui e la scarsa attitudine di quest’ultimi nel seguire traiettorie prestabilite. Per cui è impossibile proporre modelli replicabili, valutazioni e indicatori capaci di prevedere degli esiti consequenziali.

Dopo l’osservazione di questa che definirei “fenomenologia” di comunità è comunque utile individuare alcuni specifici orizzonti di approfondimento per la progettazione di pratiche ispirate ai sopracitati “modelli” territoriali, in particolare riferimento alle imprese di comunità.

Primo, gli aspetti di governance e mobilitazione. Cosa spinge le comunità nell’attivarsi in progettualità territoriali. Come il processo di mobilitazione influenza la forma organizzativa e il settore di attività, quali aspetti strutturali legati al largo contesto politico ne favoriscono l’azione. Quali risorse simboliche ed intangibili scaturiscono la partecipazione delle comunità locali. Quale giusto equilibrio tra questi due aspetti.

In questo senso è interessante osservare, in Italia, le pratiche intercettate nel progetto Segnali di Futuro di cui scrive Claudio Calvaresi su cheFare.

Secondo, gli aspetti in termini relazionali e di capitale sociale. Quali caratteristiche interne ai gruppi di mobilitazione locale portano al successo delle iniziative: fiducia e leadership locale, vision di gruppo, capacità peculiari. Quali caratteristiche interni ai progetti: formule gestionali ed aspetti tecnici nella strutturazione del processo di community engagement. Come influiscono le relazioni e la fiducia tra gli attori locali, la capacità di includere i membri nelle decisioni strategiche, la capacità di comunicare con trasparenza stabilendo un espressione democratica della comunità locale.

In questo aspetto è interessante osservare l’esempio di Ex Fadda a San Vito dei Normanni, un impresa culturale di comunità (nata come spin-off delle politiche dei Bollenti Spiriti in Puglia) che non accenna ad arrestare i propri sviluppi, facendo leva su una continua innovazione nelle formule di coinvolgimento locale.

Terzo, gli aspetti in termini di investimento ed innovazione finanziaria. Quali ragioni spingono all’investimento nelle imprese di comunità. L’indagine sulle attività utili a promuovere modelli di business basati su formule di azionariato locale. Quali formule nella creazione di valore locale: fondi di reinvestimento (revolving fund) nelle comunità, creazione di valore ambientale in senso ampio (environment), spillover e fattori endogeni che favoriscono gli investimenti e le formule di co-production con le amministrazioni locali (Shand, 2015).

Tra queste è interessante osservare il potenziale nelle iniziative di prosumers come le imprese di comunità energetiche (ne parlo in un saggio per l’impresa sociale), le quali sembrano rappresentare, per potenziale di sviluppo, aspetti tecnologici ed organizzativi, un interessante orizzonte verso cui continuare a guardare. In questo filone sono degne di nota le iniziative di piattaforme di equity-crowdfunding come la neonata Ecomill.

Da chefare.com di Luca Tricarico


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA