Cooperazione & Relazioni internazionali

Europa 2016, il ritorno dei muri

Perché costruiamo muri, anziché ponti? Eppure, da questa scelta dipende il destino di tutti, dei migranti e dell'Europa. Ecco la nostra intervista con la sociologa Saskia Sassen, che spiega: «La storia non sarà tenera con i politici del vecchio continente».

di Marco Dotti

Fuggono da qualcosa o si dirigono verso qualcosa? Scappano dalla guerra, nelle sua forma asimmetrica e impura, o cercano l’ennesimo paradiso in terra? Incubo o miraggio? Difficile rispondere senza allargare il quadro e senza capire che le nostre parole – migranti, profughi, immigrati, rifugiati – appartengono a un lessico che non è più in grado di cogliere i profondi processi in atto. Finora, i flussi massicci di sfollati, conseguenza dei fenomeni di povertà estrema, di conflitti armati e disastri ambientali solo in minima parte ricadevano sul “nord globale” del pianeta, che comunque ne traeva profitto per mano d’opera a basso costo e via di questo passo.

Ricordiamo che fino al 2011, circa l’80% dei profughi era ospitato nei Paesi del sud del mondo e circa 5 milioni di profughi risiedeva in Paesi con un Pil pro capite annuo inferiore ai 3mila dollari. Poi le cose hanno cambiato verso. E sono tornati i muri. Saskia Sassen è tra le interpreti più lucide e autorevoli delle linee di faglia, spesso tortuose, di quel percorso che semplificando chiamiamo con una parola: globalizzazione. Proprio nel cuore di questo processo, in un’Europa che si voleva senza confini, senza muri, senza barriere, muri, confini, barriere hanno ricominciato a crescere. E a marcare uno spazio, istituendo un dentro e un fuori, caratteristiche di ogni spazio chiuso, ma anche limbi entro i quali è sempre più facile cadere, venendo risucchiati in un “fine pena mai”.

Per Sassen, autrice da ultimo dell'importante Espulsioni. Brutalità e complessità nell'economia globale (Il mulino, Bologna 2015) bisogna sì criticare chi alza muri e reclama nuovi confini, ma bisogna preliminarmente e “concettualmente” rendere visibili gli invisibili, illuminare le soglie, scoperchiare i limbi. Capire le nuove soglie dell’esclusione non è mero esercizio accademico. È una necessità per una società civile che rischierebbe, altrimenti, di venir meno ai suoi presupposti. Queste soglie «sono tantissime, stanno crescendo e vanno diversificandosi. Sono potenzialmente qui i nuovi spazi in cui agire, in cui creare economie locali, nuove storie, nuovo modi di appartenenza», spiega Sassen. Ma per agire bisogna capire.

Professoressa Sassen, che cosa sta accadendo in Europa? Le politiche europee in materia di rifugiati sono sorprendenti per il cinismo e la schizofrenia, ma anche per la lentezza con cui si articola il percorso decisionale di Bruxelles. Al contrario, gli Stati membri si mostrano velocissimi quando si tratta di alzare muri e confini materiali…
Il livello della responsabilità politica è sfidato dalla complessità dei flussi e dal fatto che il potenziale totale di questi flussi è 15 volte superiore a quello finora affiorato. Mentre perdiamo tempo, le guerre continuano senza sosta. A questa sfida l’Europa risponde guardandosi alle spalle. Viene data così una risposta regressiva: reinstallare i confini e costruire muri in cima ai vecchi confini. E si abbandona la Grecia, ma an- che l’Italia, a una sofferenza che è anche economica ma non solo. La storia non sarà tenera con i responsabili delle politiche europee. Abbiamo però bisogno di un altro linguaggio, ci serve una nuova lingua. C’è stato un tempo in cui le differenze erano chiare e l’immigrato… si lasciava una casa alle spalle.

C’è comunque chi pensa che “rimandarlo a casa” (anche se la casa ora non c’è..) sia una soluzione moralmente condannabile, ma politicamente realistica….
Penso che questa risposta configuri al tempo stesso una forma nuova di brutalità e una soluzione fallimentare. Credo invece che le soluzioni di cui avremmo bisogno dovrebbero includere e comprendere ciò che sta accadendo nelle aree di origine e provenienza dei migranti. Non possiamo spostare tutto il peso della “soluzione” sulle spalle di donne, uomini e bambini in fuga da situazioni d’inferno.

Le sfide aperte da queste migrazioni possono essere considerate come marcatori di una nuova epoca?
L’Europa è solo uno dei fronti aperti. In America centrale vediamo una nuova migrazione di minori non accompagnati. Fuggono dalla violenza urbana delle gang e dalle droghe. I loro genitori spesso sono stati uccisi nel corso di queste guerre urbane e i bambini sono rimasti traumatizzati. Le interviste e le ricerche sul campo fatte in questi contesti mostrano come i bambini portino con sé la paura di quella violenza urbana, che può esplodere improvvisamente e ovunque. Non ci sono linee chiare di combattimento, può accadere in qualsiasi momento, in qualsiasi punto della città. E poi ci sono i nuovi rifugiati che arrivano dal Myanmar, dove il land grabbing per le estrazioni minerarie e lo sfruttamento delle piantagioni hanno creato una forte crisi nelle zone rurali. Questa crisi ha mobilitato persino alcuni sacerdoti buddisti, anche se definirli buddisti è difficile dal momento in cui promuovono certe tipologie di assassinio. L’abito non sempre fa il monaco. C’è chi giustifica l’uccisione di membri della comunità Rohyngia, il più noto gruppo musulmano e anche il più perseguitato in quella regione. Quasi 100mila hanno lasciato la loro terra negli ultimi due anni… Per intere settimane queste persone sono state su imbarcazioni precarie in balia del mare delle Andamane.

Lei colloca la questione dei confini all’interno di una riflessione importante su ciò che ha chiamato “massive loss of habitat”?
Il nostro linguaggio è insufficiente. Parole come “migranti” o “rifugiati” non colgono questi flussi emergenti di gente disperata che si muove e attraversa il pianeta. C’è un misto di condizioni negative crescenti che equivale ad una massiccia perdita di habitat a livello globale. Mentre oggi la guerra è la causa fondamentale di spostamento, molti altri fattori genereranno sempre più flussi di persone in uscita dalle proprie terre. Davvero significativo in questo momento è la rapidissima crescita dei popoli rurali e semirurali costretti a spostarsi per una serie di concause che si mascherano dietro la causa più visibile che è la guerra. Pensiamo agli effetti del cambiamento climatico sulla riduzione della terra abitabile.

Pensiamo anche alle grandi acquisizioni di terre da parte di governi stranieri e di imprese per soddisfare la domanda interna. Pensiamo ancora al boom edilizio che porta alla costruzione di nuove città, spesso private. Pensiamo infine alla forte espansione nel settore minerario di nuovi materiali per l’industria elettronica o all’avvelenamento sempre più rapido di terra e di acqua a causa dell’agricoltura intensiva, del settore minerario o manifatturiero. Forze potenti stanno contribuendo a formare nuove dinamiche di espulsione che interesseranno un numero sempre più grande di persone. Far ricadere l’onere della spiegazione sull’espulso non ci aiuta di certo a trovare soluzioni praticabili. Sappiamo dalla storia che, data loro un’opportunità, gli immigrati sono spesso capaci di creare piccole imprese ed economie locali. Hanno rivitalizzato molte aree urbane in profonda decadenza e scarsamente popolate.

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