Cooperazione & Relazioni internazionali

Isis. Quando il terrore seduce le classi medie

Prima dell’inizio della guerra civile siriana nel 2011, i giovani jihadisti raramente appartenevano al ceto medio. Oggi è cambiato tutto. Sarebbero 4000 i giovani europei passati alle armi in Siria. Arrivano i terroristi di terza generazione: integrati, istruiti, capaci di usare ogni tecnologia, non conoscono le tradizioni, ma sfidano da dentro l'Europa. Lo fanno a colpi di "Islam for dummies". Altro che Medioevo, l'Isis è il Postmoderno incarnato

di Marco Dotti

Generazioni che guardano, terroristi che agiscono

Nell’agosto del 2014, un sondaggio di ICM Research, società di rilevazione tra le più affidabili del Regno Unito, pubblicò i risultati di un’indagine che ancora oggi dovrebbe darci da pensare: il 27 % dei ragazzi francesi, tra i 18 e i 24 anni, mostravano di avere un’opinione favorevole al cosiddetto Califfato. Nel Regno Unito la percentuale scendeva al 7%, mentre in Germania arrivava al 2%.

Ovviamente, nessun potenziale terrorista rivendicherebbe in anticipo la propria affiliazione, ma proprio per questo il lavoro dell’ICM Research va tenuto in grande considerazione. Captare qui e ora il cosiddetto sentiment, l’atteggiamento diffuso di compiacenza, in quella zona grigia che un tempo avremmo chiamato “la maggioranza silenziosa” e Manzoni chiamava “senso comune” può diventare fondamentale, visti i tempi bui che si prospettano. Il buon senso c’è, ma come spesso accade se ne sta nascosto in attesa di tempi migliori.

Benché nessun altro sondaggio abbia poi saputo replicare i dati della ICM – o, forse, a nessun committente istituzionale conveniva realmente insistere su un tasto tanto dolente: meglio affidarsi a letture estemporanee che a indagini serie – dopo gli attacchi alla redazione di Charlie Hebdo del 7 e del 9 gennaio del 2015, un’équipe coordinata dal professor Scott Atran, antropologo, direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique (CNRS) di Parigi si è messa all’opera.

Lo scopo? Testare il sostegno che ragazzi francesi e spagnoli dopo il passaggio all’atto nel cuore dell’Europa del terrorismo fondamentalista in qualche modo legato all’arcipelago-IS. I ragazzi francesi mostrano “simpatia”, “empatia” o persino esplicita adesione a ai contrapposti “valori” dell’IS? L’équipe coordinata da Atran ha scoperto che, tra le comunità giovanili studiate, soprattutto nelle fasce popolari di Parigi, il fascino della shari’a supera di gran lunga la comprensione e la conseguente adesione a valori come la tolleranza, il pluralismo, la democrazia. In sostanza, una conferma qualitativa, a un anno di distanza, dell’indagine quantitativa dell’ICM Research.

In Spagna – e questo è forse il dato più rilevante– benché i “valori” dell’IS trovino meno adesione diretta, quasi nessuno dei giovani intervistati si è dichiarato pronto a battersi per i contrapposti “valori democratici”, anche se messi brutalmente in discussione da attentati, come quelli contro la redazione di Charlie Hebdo.

Tutte le indagini che non indulgano al “colore” o alla lacrima del momento, ma cerchino di affondare realmente lo sguardo nel problema rivelano che le condizioni di disagio materiale giovanile contano poco nella costruzione identitaria del nuovo terrorismo. Contano condizioni di disagio più profondo, che nulla hanno a che vedere con elementi quali la scarsa scolarizzazione, la precarietà economica o la disoccupazione familiare.

Anche Il fatto di provenire da una famiglia o da religione musulmana non sembra più una determinante: è infatti in crescita il trend delle conversioni come presupposto per l’immediato passaggio all’arcipelago jihadista. Anche la nozione di jihad, precedentemente rivolta contro infedeltà ed eresie in questo contesto, sembra mutare in estensione, se non proprio di segno. Dall’inizio della guerra civile in Siria le cose sono cambiate e gli interpreti sono concordi nell’ammetterlo. Prima che iniziasse la guerra civile siriana nel 2011, i giovani jihadisti raramente appartenevano al ceto medio. L’allarme però era già stato lanciato e i primi focolai di questa nuova tendenza – la trasformazione degli integrati in “disintegrati – erano già in atto. Oggi la stima dei giovani europei che sono passati in Siria per prestare la propria opera alla jihad si aggira attorno ai 4000.

La sezione antiterrorismo dell’FBI e le agenzie di intelligence più avvedute hanno da tempo capito che cercare di individuare nuovi affiliati servendosi esclusivamente del pattern del terrorista cresciuto in un contesto di scarsa integrazione e disagio è fuorviante. Il nuovo terrorista è generalmente europeo di terza generazione, proviene da una classe media o agiata e ha un buon titolo – in alcuni casi un ottimo titolo – di studio conseguito in università britanniche o francesi e, cosa non facile da accettare per molti, senza nemmeno i rudimenti di qualsiasi religione.

Solitamente sono tre le categorie in cui affonda le radici il nuovo radicalismo:

1) i terroristi fatti in casa, i cosiddetti “domestici”, nati, cresciuti e educati in un Paese europeo;

2) i désaffiliés, ossia i giovani più vulnerabili che percepiscono l’ambiente sociale come un ambiente di inevitabile esclusione e cercano, pertanto, un diverso radicamento mutando il proprio disagio in odio verso tutto ciò che rientra nell’ambigua categoria di “altri”;

3) il ceto medio con una forte prevalenza, dal 2013, delle donne, anche delle madri, che si orientano al jihad.

Queste ultime costituiscono il vero dilemma. Alcuni studi riconducono l’arruolamento femminile a una percezione della disgregazione del legame famigliare che, a detta di molte ragazze, “in Europa non avrebbe futuro”.

Nel 2008 un report sul radicalismo preparato dall’unità di scienze comportamentali del Security Service (MI5, Military Intelligence, Sezione 5) l'ente per la sicurezza e il controspionaggio del Regno Unito, venne anticipato sul Guardian. Lamentando una lacuna nella teoria del terrorismo, il rapporto rivelava che ben lungi dall’essere fondamentalisti religiosi (“…far from being religious zealots…”), un gran numero di “coloro che vengono coinvolti nel terrorismo non pratica regolarmente la propria fede. Molti sono privi di un’educazione religiosa”. Insomma, sono quelli che, a stretto rigor di logica, potremmo definire dei laici. Laico, integrato, altamente scolarizzato, mediamente benestante: è questo il pattern del nuovo terrorista che si aggiunge al fondamentalista old style e, alla lunga, finirà per scalzarlo. Per ora, i due pericoli si sovrappongono

Il dato venne poi confermato anche dalla prevalenza delle letture di questi neofondamentalisti. Se prendiamo l’esempio di due aspiranti jihadisti provenienti dall’Inghilterra, Yusuf Sarwar e Mohammed, scopriamo che i loro livres de chévet si riducevano a “Islam for Dummies” e al “Corano for Dummies”.

In sostanza, un’alfabetizzazione religiosa fatta sui Bignami. Oggi, osserva Scott Atran, “a ispirare i più letali terroristi del mondo oggi non sono tanto il Corano o gli insegnamenti religiosi quanto una causa eccitante e un invito all’azione che promette gloria e considerazione agli occhi degli amici e, attraverso gli amici, rispetto e memoria nel mondo”. Per questi fondamentalisti 2.0, spesso iper qualificati, talvolta troppo scolarizzati “il jihad è un datore di lavoro egualitario e ricco di opportunità… eccitante, glorioso e cool”. La religione fa la sua parte, ma in una forma perversa che, rivela Atran, si presenta come “veicolo emozionale” capace di dar forma a un mondo che i giovani percepiscono oramai senza forma alcuna. Qui interviene quel mix tra nichilismo e post nichilismo che è la vera scommessa dell’IS.

La guerra è il messaggio

Il fenomeno fondamentalista si presenta, fin dalle sue origini, come un paradosso che mischia semplificazione e modernità, secolarismo del mezzi e purezza dei fini. Il termine non aveva all’inizio un’accezione negativa e nasce, ricordiamolo, in un contesto evangelico e battista americano, traendo origine da una serie di dodici opuscoli, chiamati Fundamentals, pubblicati a partire dal 1908. Sul piano simbolico sarebbe particolarmente interessante seguire l’evoluzione e il rapporto del fondamentalismo con i nuovi mezzi di comunicazione, dalla televisione dei telepredicatori a twitter.

In qualche modo, tornano all’IS, questo mix di semplificazione, ordine, ma anche adesione piena al mondo “post” torna nelle parole di Abu Mussa, l’addetto stampa dell’IS a Raqqa, la capitale dello Stato Islamico (piaccia o no, questa è un’altra caratteristica: il radicamento e la sovranità su uno specifico territorio), che afferma: “Non vogliamo riportare la gente al tempo dei piccioni viaggiatori, vogliamo al contrario approfittare di tutti i nuovi sviluppi della tecnologia, ma vogliamo farlo in un senso che non sia contrario alla religione”.

Se McLuhan affermava che “il medium è il messaggio”, per il rappresentanti dell’IS “la guerra è il messaggio”. Proprio per questa loro capacità di stare nel mezzo di un’innovazione che ancora non abbiamo ben compreso l’attenzione deve essere alta.

Il fondamentalista parte da una condizione e da un ambiente fortemente imbevuto di nichilismo, ma non approda a un ambiente che dobbiamo con sbrigativa indulgenza considerare nichilista. L’ambiente dell’IS è forse più post-nichilista, che nichilista. Del nichilismo sfrutta i punti deboli e li mette a profitto attraverso una ri-simbolizzazione del mondo in chiave e in forma post-religiosa.

Ciò nonostante – qui sta il pericolo – riesce a dare una visione del mondo. In un suo saggio di capitale importanza, Scott Atran ha messo in luce un doppio binario. Da un lato l’Is ha una strategia: costituire un arcipelago jihadista mondiale che, sul lungo periodo, distrugga il mondo attuale e lo sostituisca con un mondo nuovo, improntato al celebre hadith del Profeta: “Il paradiso è all’ombra delle sciabole”. Dall’altro, c’è una tattica: dare una risposta al nichilismo europeo, attirando verso di sé i simpatizzanti e gli indecisi, indipendentemente dalla loro sfera laica o religiosa di origine. Il mondo non si divide più, per i tattici dell’Is, in “musulmani” e “non musulmani”, ma in fedeli e in quelli che gioco forza lo diventeranno.

Capitalizzano la crisi del legame e conoscono la società del rischio

L’Is ha una capacità inaudita di stare nella società del rischio, la Risikogesellschaft di cui parlava il sociologo tedesco Ulrich Beck. Se l’uomo – osserva Atran – è l’unico animale che ha una cognizione della propria morte, non trovare un orizzonte di senso in cui collocare questa “ferita cognitiva” può essere per lui letale. L’Is ha compreso che questa ferita cognitiva non può reggersi sul nulla. La forza di radicamento dell’IS è sì territoriale – a onta delle affermazioni e dei vari comunicati degli Stati maggiori degli eserciti o delle minimizzazioni degli interpreti, l’espansione in Africa ed Eurasia è costante – ma è, soprattutto, di ordine simbolico.

Alla crisi di senso, l’IS risponde con un sovraccarico sensoriale e con una propaganda che usa ogni mezzo neurocognitivo per intercettare una domanda di senso che giace sotto la cenere. C’è una pulsione di morte, ovviamente, ma questa pulsione riesce a essere incanalata in forma certamente perversa ma tale da determinare – qui lo studio di Atran è fondamentale – una certa gioia comunitaria, là dove in Europa ogni tensione alla communità di destino si sta disgregando.

Il Califfato, nella sua funzione di un mito mobilitatore, si mostra una megamacchina capace di una lettura della realtà europea che a molti analisti europei fa difetto. Ha individuato un vuoto, ha colto la crisi del senso, ha visto che il primo nemico dell’Occidente è un nemico che l’Occidente stesso non ha ancora capito essere tale – il nichilismo, anche nella sua fase high-tech – e ha investito su questo, offrendo un’alternativa perversa, fondata su un senso strettamente giacobino della shari’a (altro che “valori usciti dalla Rivoluzione!”).

minimizzare non serve, reprimere non basta, il senso è la vera questione. Il 27% dei ragazzi francesi mostra un atteggiamento favorevole all’IS, attesta la ricerca che abbiamo citato all’inizio dell’articolo. L’IS lo sa, sa che sono loro il loro “investimento a lungo termine”.

La frattura tra generazioni e la crisi del legame famigliare è il terreno di coltura della nuova radicalizzazione jihadista.Più del petrolio, della tratta di esseri umani su cui fa business – esiste un tariffario macabro, anche dei bambini venduti dall’Is – e più dei finanziamenti con Stati più o meno occultamente complici, è sui giovani europei abbandonati da un’Europa senza radici che l’Is fonda la propria scommessa.

Ecco perché la sfida dell’IS è la più radicale tra tutte quelle che abbiamo conosciuto dal ’33 a oggi. Chi grida “al Medioevo!” non ha capito nulla. Il fondamentalismo è più moderno di noi. Ama la morte e non lo nasconde.

Riferimenti

A. Glees e C. Pope, When Students Turn to Terror. How safe are British universities, Social Affairs Unit, Londra 2005.

F. Khosrokhavar, “Quando il jihad affascina i giovani francesi. Un’analisi oltre i cliché”, Aggiornamenti Sociali, n. 12 (dicembre 2015), p. 823. L’Autore è un sociologo e insegna all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences sociales di Parigi.

H. Hasan, “What the jihadists who bought “Islam for Dummies” on Amazon tell us about radicalisation”, The NewStatesman, 21 agosto 2014,

S. Atran, Talking to the Enemy. Religion, Brotherhood, and the (Un)making of Terrorists, HarperCollins Publishers, New York 2010.

S. Atran, “ISIS is a revolution”, Aeon, 15 dicembre 2015,

In copertina: Didascalia: Un soldato di Jaish al-Islam, 23 gennaio 2016. Photo credit: AMER ALMOHIBANY/AFP/Getty Images.


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