Cooperazione & Relazioni internazionali

L’arte cambia rotta
 e sale sulla barca dei migranti

Un modo potente 
di cambiare l’immaginario. Opere, performance, installazioni. Tutti gli artisti che si sono lasciati affascinare e toccare dalle vicende dei profughi. E così hanno anche cambiato il modo di percepire le tragedie e queste persone. Il servizio sul numero di VIta in edicola da venerdì

di Giuseppe Frangi

Ai Weiwei è stato il più radicale e anche il più mediatico. Ha deciso di aprire lo studio a Lesbos, l’isola greca meta della gran parte degli sbarchi negli ultimi mesi. Ha documentato tutto su Instagram con centinaia di immagini, che sono una forma artistica di presidio su una delle frontiere più fragili del pianeta. Ai Weiwei è cinese, e nel luglio scorso aveva promosso con un’altra star del sistema dell’arte, l’anglo indiano Anish Kapoor una marcia degli artisti per le strade di Londra in solidarietà con i migranti. Tutti avevano una coperta, come simbolo. A Venezia l’ultima Biennale si è aperta all’insegna di una performance immaginata da Vik Muniz, artista brasiliano: ha varato davanti ai Giardini una barca di 45 piedi, chiamata Lampedusa. All’esterno era rivestita da materiale che riproduce la prima pagina del quotidiano La Nuova Venezia del 4 ottobre 2013, il giorno seguente il tragico affondamento al largo dell’isola, che aveva causato la morte di 366 migranti.

Tra i grandi artisti che oggi dominano la scena, uno dei più sensibili all’esperienza dei migranti è necessariamente Adrian Paci, albanese, migrante lui steso, essendo arrivato in Italia nel 1992. Una delle sue opere più celebri si intitola “Centro di permanenza temporaneo”. Vi si vede la scaletta di un areo in mezzo ad una pista: gli scalini sono stipati di persone, evidentemente migranti. Ma intorno non si vede niente e nessuno.

Il migrante è un uomo che non ha terra sotto i propri piedi. Che vive in un mondo sospeso. In un’al- tra sua opera, “Home to go”, una scultura, si vede Adrian Paci stesso farsi carico sulla schiena del tetto della sua casa.

A Ciudad Juarez, la città messicana vicina al confine Usa, sulla frontiera più sorvegliata del mondo, dove il papa a inizio febbraio aveva presieduto una messa davanti a migliaia di fedeli, di qui e anche di là dalla barriera, un artista palestinese Khaled Jarrar ha appena realizzato un’opera sintomatica. È una lunghissima scala slanciata verso il cielo, realizzata con pezzi presi dal divisorio del confine. Gli abitanti l’hanno ribattezzata la scala di Khaled. Lui, Jarrar, non si è limitato all’opera: a bordo di un pulmann dell’associazione Culturunners sta viaggiando per migliaia di chilometri negli Usa per collegare e sensibilizzare gli artisti. L’arrivo è previsto a fine marzo a Washington, allo Smithsonian, il museo dove Jarrar terrà una mostra e che è situato proprio davanti alla Casa Bianca che potrebbe diventare la casa di un certo Donald Trump. In Italia il gesto più clamoroso è stato quello di Corrado Levi: artista concettuale e docente in una performance si è vestito con gli abiti dei migranti trovati sulle sponde del mare a Otranto e si è fatto fotografare da Beppe Finessi, amico, architetto, autorevole storico del design.

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