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Inclusione attiva, ecco il modello Cremona

La prima misura nazionale contro la povertà punta all'attivazione delle persone, per la fuoriuscita dalla condizione di bisogno. La presa in carico integrata è la leva fondamentale, ma è più facile a dirsi che a farsi. La Provincia di Cremona ha avviato una sperimentazione importante, fra servizi sociali e servizi per il lavoro, che potrebbe insegnare molto

di Sara De Carli

Benché sia ancora senza nome, prende forma la prima misura nazionale contro la povertà. Dopo il disegno di legge delega per la lotta alla povertà di fine gennaio sono arrivate le "Linee guida per la predisposizione e attuazione dei progetti di presa in carico del Sostegno per l’inclusione attiva”, approvate a metà febbraio in Conferenza Unificata. Queste linee guida, una sorta di “istruzioni per l’uso” destinate ai servizi, disegnano un nuovo modello di presa in carico che punta tutto sull’attivazione delle persone stesse, per la fuoriuscita dalla condizione di povertà. Per raggiungere questo obiettivo serve un approccio diverso dall’attuale e infatti le linee guida disegnano una presa in carico integrata, fatta da equipe multidisciplinare: più facile a dirsi che a farsi.

Un modello a cui guardare è di sicuro quello in atto alla Provincia di Cremona, che sta sperimentando una presa in carico integrata fra servizi sociali e servizi per il lavoro, in collaborazione con i servizi sociali e le aziende sociali dei Comuni della Provincia e con Fondazione Zancan. I presupposti sono due. Il primo è la consapevolezza del fatto che i servizi sono oggi distanti e non coordinati fra loro, nel linguaggio che parlano come nelle azioni che mettono in atto, il secondo la percezione di una nuova domanda di protezione sociale che si affaccia ai servizi, persone “normali”, non in situazione di svantaggio, a volte neanche abbastanza gravi per avere accesso a una misura di sostegno. Per tutti questi motivi, i servizi hanno accettato la sfida di cambiare, con la stessa disponibilità all’attivazione e al mettersi in gioco che è richiesta ai beneficiari. Da qui l’opzione per la presa in carico integrata, che ovviamente è molto di più che mettere alcuni operatori uno accanto all’altro e che (questo forse è un po’ il limite delle Linee guida ministeriali, che già disegnano tutta la governance del sistema) non si può fare per decreto.

A Cremona i numeri sono piccoli, ma sostenuti da un solido percorso. La presa in carico integrata riguarda 35 utenti, che già hanno una buona disponibilità all’attivazione. Il lavoro con loro è partito gennaio e terminerà a settembre, con valutazioni step by step dell’efficacia dell’approccio e delle misure specifiche che vengono attivate. La formazione degli operatori però – questo è il punto chiave – è durata oltre un anno. L’approccio è cercare di promuovere un cambiamento nelle persone, ma fatto insieme con il sistema, facendo leva sull’integrazione tra professionalità diverse e sulla complementarietà delle risorse (sia intese come risorse istituzionali sia come risorse individuali della persona, sia come risorse della comunità). In sostanza cosa cambia? Che a seguire il singolo utente è una micro-equipe multidisciplinare, ovvero un operatore dei servizi per il lavoro e l’assistente sociale, a cui potranno aggiungersi caso per caso operatori di altri servizi o community maker: l’equipe ha avuto una formazione interdisciplinare, nel senso che è fondamentale per i servizi sociali avere un approccio più orientato al lavoro, che è la prima esigenza delle persone, ma contemporanea non si può valutare una persona solo per le sue competenze, senza mai porsi il tema che quella persona sta in un contesto. Serve un cambio di cultura professionale, la capacità di costruire un filo fra misure, azioni e risposte tutte separate.

La difficoltà è che per farlo servono tempo e numeri, grida forte l’esperienza cremonese. Per fare presa in carico integrata, gli operatori devono sentirsi continuamente e scambiarsi opinioni, sgombri da emergenze, servirebbe un numero di operatori maggiore e se è vero che il Job Acts ha rafforzato i centri per l’impego, dandogli più responsabilità e incombenze, non vi ha messo al momento più persone. Il fatto stesso di non essere in un unico luogo non facilita, come pure la mancanza – banalmente – del cellulare di servizio: se sei in riunione non ti trovano, è inutile. Poi ci sono i pregiudizi di mondi che convivono ma di fatto non sono abituati a parlarsi: lavorare in modo integrato presuppone competenze sia della propria materia e sia trasversali, che non tutti immediatamente hanno. E infine la necessità di continuo aggiornamento e formazione: non tutti devono essere esperti di tutto, ma tutti devono conoscere il panorama e sapere chi chiamare per mettersi in rete. Ricordando che fare rete non è sedersi in molti attorno tavolo, ma fare collegamenti, anche fra le risorse. E allora serve costruire linguaggio comune, per interpretare insieme la stessa cosa. Servono figure dedicate alla progettazione e alla formazione e magari anche avere figure che facciano da punto di riferimento, che scandiscono il ritmo, che continuino a motivare, con cui confrontarsi. «Fare presa in carico integrata è difficilissimo, sarebbe più semplice staccare assegno», dice chi la sta sperimentando. Ma anche questa trasversale capacità di ascolto, scava scava, è forse il primo bisogno e questa capacità di non sostituirsi serve davvero molto, devono averla tutti, perché ti aiuta a capire e magari, se ascolti bene, puoi anche capire che attivare un contributo non è la risposta che serve.

Adulti, con al massimo 39 anni, non inquadrabili nella categoria di lavoratori svantaggiati, già beneficiari di interventi erogati dai servizi sociali, disoccupati, inoccupati, cassaintegrati o persone con una lettera di licenziamento in mano, con una buona disponibilità all’attivazione: questo grossomodo è il profilo individuato a Cremona per proporre la sperimentazione della presa in carico integrata. Gennaio e febbraio sono stati i mesi della valutazione e dell’analisi dei bisogni e delle risorse dei 35 utenti che hanno accettato: la scommessa per i servizi è stata quella di uscire dal binomio bisogno/risposta e dagli automatismi della “profilazione” dell’utente, per costruire insieme alla persona, un progetto di ri-attivazione che parta dalle sue risorse e potenzialità. Il “patto” verso l’autonomia sarà firmato a marzo. Il progetto personalizzato individuerà alcuni obiettivi concreti – non “alti” come “trovare lavoro” –legati ad attivare un cambiamento sociale e lavorativo. Il progetto non eroga soldi ma dà una regia alle misure e azioni disponibili, dalla Dote Unica Lavoro al bilancio delle competenze alle 30 ore del percorso di empowerment. C’è un piccolo budget, che non si tramuta in cash ma in facilitazioni: pagare l’abbonamento ai mezzi e poter frequentare un corso, pagare la baby sitter e poter partecipare a un colloquio, nella logica di eliminare quei piccoli ostacoli che a volte sembrano insormontabili, portano a rinunciare e a considerare il cambiamento qualcosa di irraggiungibile. L’altra novità è che nel progetto è sempre previsto un impegno in un’attività di pubblico interesse (accompagnare alunni a scuola, assistenza e trasporto di persone con mobilità ridotta, piccola manutenzione di aree pubbliche, supporto nell’organizzazione di attività sportive o culturali…): non rispettarlo non comporta alcuna sanzione ma è pur sempre un impegno non rispettato e comunque significa aver perso un’occasione, poiché al di là delle prestazioni il più potente antidoto all’esclusione è l’avere una rete di legami sociali attorno. Non succede nulla, nessuno ti toglie nulla, ma ci perdi tu.


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