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Angelo Ferro: Non faccio residenze per anziani, faccio fabbriche di relazione

Intervista ad Angelo Ferro, presidente della Fondazione Oic morto oggi. Da lui abbiamo imparato molto, era sempre un passo avanti. Lo ricordiamo così

di Marina Moioli

È morto Angelo Ferro, nato a Padova nel 1937, fin da giovanissimo si è interessato di problematiche socioeconomiche, con particolare riferimento all’ambito della longevità, dando vita a Padova nel 1955 insieme a Don Antonio Varotto e Nella Maria Berto alla Fondazione Opera Immacolata Concezione onlus, diventata nel tempo una delle più rilevanti organizzazione non-profit europee con oltre 1.500 dipendenti di 29 diverse nazionalità. Grazie alla propria parallela carriera accademica (è stato per oltre 30 anni professore di Politica Economica Internazionale e di Economia Internazionale alla Facoltà di Economia dell’Università di Verona) ed imprenditoriale (titolare di un gruppo leader del mercato mondiale nel settore dell’impiantistica alimentare, nonché membro di diversi consigli di amministrazione di società quotate, in particolare nell’ambito editoriale e bancario) ha sviluppato negli anni una specifica sensibilità edesperienza nell’introduzione di metodologie ed approcci aziendalistici in ambiti di non-profit, alla ricerca di un sostenibile compromesso tra le esigenze di community sociale ed il rispetto dei criteri economici. Lo ricordiamo con un'intervista rilasciata qualche tempo fa a Vita.it

Di "modello" non vuole assolutamente sentir parlare: «È una parola che ci spaventa molto, perché è incompleta», dice Angelo Ferro, classe 1937, docente universitario, imprenditore metalmeccanico, ma soprattutto presidente della Fondazione Oic onlus – Opera Immacolata Concezione di Padova, la vera "opera" della sua vita, a cui è legato da quando aveva 25 anni. Dopo esserne stato presidente dal 1962 al 1975, è tornato con grande entusiasmo alla guida della fondazione a metà degli anni 90.


Il vostro principio cardine è quello della "longevità come risorsa". Su cosa si basa questa intuizione?
Sul rovesciamento del paradigma. Quando ci sono troppe persone da assistenzializzare i soliti teoremi non servono, bisogna considerare la dimensione dell'allungamento della vita. Se non posso guarire la non autosufficienza degli anziani, posso però cominciare a pensare cosa fare per restituire loro il ben-essere. Questo implica stabilire una relazione. Ad esempio noi pensiamo che i disabili più giovani debbano diventare i coach di quelli anziani. Un ottantenne in carrozzella vive patologicamente la sua non autosufficienza, se invece gli metto vicino come driver, come trainer, come coach un giovane disabile come lui, quest'ultimo sarà in grado di trasferirgli l'entusiasmo per vivere. Lo stesso approccio lo applichiamo ai malati di Alzheimer: è una falsità illudere chi ha perso la memoria che potrà recuperarla con una montagna di medicine. Dobbiamo trovare un modo di dare serenità a queste persone senza pretendere di guarirle, ma rispettandole. Per questo diventa quasi una necessità conseguenziale che i centri residenziali diventino "fabbriche di relazione". Noi oggi siamo produttori di benessere e vogliamo esserlo con tutte le generazioni grazie a un nuovo progetto: quello del Distretto di cittadinanza.


Cosa intendete con Distretto di cittadinanza?
Un giacimento di capitale umano in grado di ricreare condizioni di vita comunitaria. Le immaginiamo come una "dimensione aperta" che fa entrare tutti in una logica operativa. Nel mondo di oggi abbiamo separato tutto: il territorio, le ore della giornata… logico che poi diventiamo egoisti e la società è così frammentata. Dobbiamo ricomporre tutto il tessuto sociale. L'anziano che va in pensione deve avere un ruolo e solo trasformandolo in "patriarca di massa" riesco a ridarglielo.


In che modo ci riuscite?
Facciamo dei corsi per prepararlo a diventare protagonista della terza età o "nonno del cuore". Così l'anziano lascia spazio ai giovani, ma in cambio si impegna a vivere trasferendo alle nuove generazioni tutto quello che ha ricevuto. Il passo avanti da fare adesso è un altro: se finora abbiamo lavorato sulla dimensione degli anziani, ora abbiamo capito che per lavorare su questa dimensione dobbiamo integrarci anche con la prima età. Pensiamo che si debba ripartire dai più piccoli, fin dagli asili nido, dando grande risalto all'età prescolare. Ma per far crescere i bambini ci deve essere un tessuto e nel Civitas Vitae di Padova siamo pronti a questo esperimento di "relazione intergenerazionale". La prima realizzazione è un pistodromo per i bimbi di 4 anni con le automobiline ma anche per gli adolescenti alle prese con il patentino di scooter. Poi intendiamo realizzare una mediateca, un laboratorio musicale e artistico, spazi dedicati alla coltivazione di orti e giardini e officine per imparare gli antichi mestieri. I giovani saranno accompagnati nel loro percorso di crescita e i nonni avranno un ruolo di mentoring, nel produrre relazioni di entusiasmo, incoraggiamento, voglia di vivere.


E come attuate la triangolazione tra mondo del profit, non profit e istituzioni?
Possiamo contare sul supporto operativo di molte organizzazioni locali e sull'aiuto delle istituzioni ma soprattutto siamo convinti che si possa creare un circuito positivo solo facendo vivere con entusiasmo il dono della vita. Questo porta a un agire donativo implicito che è alla base della nostra azione. Gli esempi non mancano: dal patto siglato dai nostri dipendenti con tutte le organizzazioni sindacali per regalare un'ora di lavoro all'anno – poco dal punto di vista quantitativo, ma il principio è fantastico – all'offerta delle Assicurazioni Generali di polizza scontata del 30% per chi esce con il patentino dal nostro nuovo pistodromo. Questo fa sì che all'Oic tutti sentano di far parte di una vera comunità perché qui il concetto della coesione sociale e il concetto di appartenenza invece di restare parole, diventano fatti.


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