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Il futuro? Sarà l’umanesimo della fragilità

«Se mette vicini due poteri quelli si sommano, ne nasce un potere più grande. Se invece mette assieme due fragilità, quelle sinergizzano e fanno un tessuto»: così Angelo Ferro spiega la sua grande intuzione, che mette accanto anziani e bambini. È l'umanesimo della fragilità ed è l'eredità che il professore ci lascia.

di Angelo Ferro

Abbiamo incontrato Angelo Ferro lo scorso 22 ottobre 2015: eravamo a Padova per raccontare della straordinaria intuizione di affiancare bambini e anziani all’interno di Civitas Vitae. Un'intuizione che qui è quotidiana e coltivata esperienza di vita, da anni. Il professor Ferro ci ha accolti a casa sua, debole per venire all’OIC ma fortissimo nella sua passione per questa opera. Qui la lezione – di idee e di vita – che ci ha lasciato.

L’età infantile e quella adolescenziale sono fragili, c’è un mondo che cambia velocemente, con una intensità pazzesca. Oggi i ragazzi si trovano vulnerabili dinanzi a situazioni che mai i genitori mai avrebbero immaginato: chi può dare loro tranquillità? Solo chi ha superato tutte le difficoltà, chi ha vissuto tanti anni con un cambiamento continuo ma lo ha saputo gestire e continua ad avere voglia di futuro. Solo gli anziani. Questi sono i “patriarchi di massa” oggi: persone che hanno mani, testa, braccia e questa cultura di “voglia di futuro”. Certo c’è un interesse anche diretto, gli anziani si rendono conto che se si chiudono restano vittime del loro isolamento, per questo bisogna muovere innanzitutto restituire loro con forza la coscienza di essere in grado di gestire il cambiamento, perché mai nessuna generazione prima di questa ha visto e vissuto tanti e tali cambiamenti, dalla guerra alle tecnologie. Hanno visto tanto ma sono ancora giovani e hanno voglia di futuro, trascendente e civile. Questo è il primo dato.

La rivoluzione della longevità salverà l’economia

Questa voglia di futuro è un dato di fatto o va costruito? È un potenziale che va costruito. Leggiamo Moodys: non c’è una coscienza collettiva di cos’è la rivoluzione della longevità, gli anziani sono un problema di demografia e di welfare. Si leggono i numeri e ci si spaventa. Moodys dice che nei prossimi trent’anni i Paesi con alto tasso di anzianità saranno penalizzati dall’1 all’1,5% pro capite del PIL: non vedono le risorse, l’apporto che queste persone possono dare. Certo che la rivoluzione della longevità è una rivoluzione che va gestita, con una coscienza collettiva, ma questa rivoluzione avrà successo perché si basa su tre paradigmi che danno futuro a un’economia ormai ampiamente in crisi: uno, è una società delle conoscenze, tutti sanno tutto, il digital divide non c’è più; due, nella società delle conoscenze il locale ha una funzione perché è fatta da una miriade di genius loci, c’è un glocal, nella società delle conoscenze si formano spazi che danno valore al territorio. Tre, il glocal sta spazzando via le lobbies, e questo è il bello. Il bene sta venendo dal basso. Il bene si diffonde, c’è una innovazione intrecciata da questi glocal che è vincente. Basta continuare a farla. L’economia deve avere un’ispirazione di prossimità, di attaccamento ai territori. Devi avere in mente queste tre cose, perché l’uomo va avanti dal basso, ha bisogno di strutture che facciano coesione sociale. Così è nata la nostra infrastruttura di coesione sociale, dal bambino all’anziano.

Un’infrastruttura di coesione sociale

La longevità come risorsa sembra uno slogan. Ma io non ho testimonial, non pago uno per dire che… È la vita che lo afferma, i nostri 400 volontari: semplicissime persone che hanno voglia di confrontarsi con la realtà per dimostrare che questa idea dell’infrastruttura di coesione sociale è una cosa reale. Questa è la filosofia, dobbiamo arrivare ad avere nelle città un centro, un’infrastruttura coesione sociale, il ciclo della vita continuo, che unisce tutto. Io lo capisco ora per la prima volta. Se in ogni città esiste un punto così, la gente ci va. Non esiste una barriera qua al Civitas Vitae dell’Opera Immacolata Concezioni e non intendo solo barriere architettoniche, è tutto aperto. La gente entra, viene, passa. Può essere un modello per una città, non solo per un pezzetto? Certo, la grande soddisfazione è stata a fine luglio quando Cassa Deposito prestiti scelto di avere un centro di aggregazione come il Civitas Vitae dentro i suoi nuovi progetti di housing sociale, investendo 50 milioni di euro nelle Marche.

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Il personale

Come si replica questo modello? La prima cosa è la formazione. Nel 2016, per i sessant’anni della Fondazione, lanceremo un master di per diventare gestori di centri residenziali come il Civitas Vitae: vivranno qui da noi, sarà un vero master, di due o tre anni. Il personale è il nostro know how, ha una duplice caratterizzazione: è competente nei bisogni e vuole bene alla persona. Perché l’amore pe vedere il potenziale residuo. Quando lei è non autosufficiente, non sa qual è il suo bisogno, è difficile la diagnosi del proprio bisogno. I nostri operatori sono competenti ma poi si immedesimano nella persona, perché c’è un bisogno ma l’amore ti fa vedere che ogni persona ha anche un potenziale residuo, finché è viva. C’è una donna malata di Alzheimer che sgranava la corona rosario, le operatrici hanno iniziato a fare un discorso di contestualizzazione sulla pallina, non sul rosario. Dalla pallina hanno trovato un contesto di relazione, quando la signora parla di palline di gioco, è lucida: da lì si fa sviluppo sul potenziale. Per questa signora sono state le palline e il gioco, per un’altra il colore delle lenzuola, per uno il cibo… diventa un discorso di ambienti personalizzati, veramente. La scienza ormai ha compreso che là dove ci sono relazioni, si perdono pochissimi neuroni; anzi, se hai relazioni costruttive i neuroni si rigenerano: allora non puoi più fare le case di riposo. Ma che riposo? Dobbiamo fare riabilitazione. La terza età è un’età nuova, in cui io percepisco – proprio perché sono fragile – una situazione più complessa, di cui sono parte e voglio essere parte. Ecco la nostra concezione, la nostra impostazione civile: l’umanesimo della fragilità.

L’umanesimo della fragilità

Noi siamo partiti nel 1955/56, con don Antonio e una signorina che per fare il primo appartamento per ex domestiche, sui 60 anni, allontanate dalle famiglie presso cui prestavano servizio, chiesero soldi a me. Fu un successo enorme, una stava a casa a turno, le altre andavano a fare lavoretti, si mantenevano. Nel 1961 costruimmo una casa da 32 posti letto: arrivarono 100 domande per 32 posti. Il vescovo Bordignon ci incoraggiò molto, lui era un vescovo straordinario, per noi giovani era un mito. Noi non siamo arrivati qui per una strategia, non lo immaginavo, io sono molto semplice: però queste cose sono nate, una dopo l’altra e hanno creato questo e io oggi sono orgoglioso. Noi dobbiamo arrivare alla welfare society, è la società stesa che ha interesse a riscrivere i casi o i momenti problematici, mettendosi in gioco. Quando mette vicino due fragilità, queste non coincidono mai. Ma mettendole insieme si fa un tessuto che reagisce alle fragilità. Se mettiamo vicini due poteri, quelli si sommano, diventa un potere più grande. Se invece lei mette assieme due fragilità, quelle sinergizzano e fanno un tessuto.

In foto, scatti al Civitas Vitae (Stefano Pedrelli). In allegato il servizio apparso su Vita, dicembre 2015


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