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#HowDoYouSeeMe: l’inclusione c’è solo quando gli altri ti riconoscono

«Non si può fare inclusione senza partire dalla cultura, non si può pensare di fare inclusione scolastica con buoni insegnati di sostegno e buoni servizi se poi l’ambiente non è consapevole. Questo non è questione di norme e leggi ma di persone, l’inclusione c’è solo quando gli altri ti riconoscono»: così Sergio Silvestre, presidente di CoorDown, commenta il tema della campagna di qust'anno, #HowDoYouSeeMe

di Sara De Carli

21 marzo, Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down. CoorDown quest’anno la promuove con il film online “How do you see me”, con Olivia Wilde che rappresenta la vita di AnnaRose (in foto con la regista Reed Romano), così come lei si vede. Il concetto su cui quest’anno le associazioni hanno deciso di puntare è quello di inclusione: lo sguardo degli altri, la cultura, fanno ancora la differenza.

Sergio Silvestre, presidente di CoorDown, perché oggi c’è ancora bisogno di portare l’attenzione sul concetto di inclusione? La nostra non è ancora una società inclusiva, nonostante le leggi e la convenzione ONU?
La nostra campagna è rivolta a un pubblico internazionale, cerchiamo di parlare a tutto il mondo, non solo all’Italia e in tutto mondo l’inclusione è al di là da venire. Non si può fare inclusione senza partire dalla cultura, non si può pensare di fare inclusione scolastica con buoni insegnati di sostegno e buoni servizi se poi l’ambiente non è consapevole. Questo non è questione di norme e leggi ma di persone, l’inclusione c’è solo quando gli altri ti riconoscono: anche in Italia, anche qui c’è tanto lavoro da fare ancora. Non è mai persa l’occasione di ribadire la necessità di comprendere una persona con una diversità, che sia una disabilità o sia la lingua, una tradizione, un credo religioso… si ha paura dell’altro e solo se ti immedesimi riesci a comprenderlo e nasce empatia.

Quanto pesa ancora lo sguardo degli altri?
Come gli altri ti vedono incide ancora molto sulla quotidianità. Lo sguardo degli altri non è affatto una questione retorica.

Che sguardo vorrebbe?
L’obiettivo è far volgere lo sguardo oltre gli stereotipi, costruire un nuovo immaginario collettivo e promuovere un’alfabetizzazione alla disabilità. Quello che vorrei forse è utopia: che tutte le persone sappiano riconoscere la persona che ti sta davanti per quello che è come persona. Allora non serviranno più campagne di comunicazione sociale né leggi. Quando ogni vita verrà vista e vissuta come una cosa normale, non servirà più nulla.

Le vostre campagne hanno sempre un grande successo – premi, visualizzazioni – ma avete visto risultati concreti?
Ogni campagna ha fatto cadere molte barriere. L’anno scorso grazie a “The special proposal” tante persone mi hanno detto o scritto “non sapevo che potevano vivere da soli anche le persone con sindrome di Down”, le persone cominciano a farsi delle domande, e ponendosi delle domande le cose cambiano. Anche le nostre famiglie hanno cominciato ad avere un’altra prospettiva: magari mio figlio non arriverà mai a vivere da solo ma io devo lavorare fin da adesso perché possa arrivare lì. È lo stesso tema che c’era dentro “Dear future mom”, conoscere per capire: a una lettura superficiale è sembrato un messaggio prolife ma non era quello l’obiettivo, era dobbiamo comunicare nel migliore modo possibile. Le scelte sono personali, libere, ma ciascuno deve essere messo nella condizioni di prendere la sua decisione nella maniera più consapevole possibile, sapere che può esserci anche un’altra vita che non si immaginava. Abbiamo ricevuto testimonianze da tutto il mondo di genitori in attesa che grazie al video hanno migliorato la loro consapevolezza e scelto di portare avanti la gravidanza.


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