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Welfare & Lavoro

Un new deal per il welfare

L'intervento del presidente di Federsolidarietà Giuseppe Guerini che nella Sala Aldo Moro di Palazzo Montecitorio a Roma oggi ha partecipato al convegno “Cooperazione: welfare in progress”

di Giuseppe Guerini

Le trasformazioni in corso e quelle attese per i prossimi anni, che passano sotto il nome di rivoluzione digitale e di industria 4.0, porteranno cambiamenti, che riguarderanno sicuramente la qualità della vita ma soprattutto, e in maniera radicale l’organizzazione del lavoro e di conseguenza della distribuzione della ricchezza e dell’accesso ai servizi di tutti noi. Secondo alcune proiezioni nei prossimi decenni si perderanno, per effetto delle varie forme di automazione digitale e di intelligenza artificiale, una quota che oscilla dal 10 al 25% dei posti di lavoro. Già nei prossimi 4 anni secondo una ricerca presentata a Davos, dal Word Economic Forum, si perderanno circa 5 milioni di posti di lavoro nell’area dei Paesi del G20.

Ma dalle nuove tecnologie arriveranno molte nuove opportunità, anche per i sistemi di welfare, che invece continueranno ad essere un importantissimo bacino occupazionale. Ci sarà anche un Welfare digitale, 4.0 dove le nuove tecnologie aiuteranno a personalizzare e radicare i servizi nelle comunità locali, oltre che a produrre nuove opportunità di lavoro. Queste trasformazioni, se non ci saranno interventi di politica internazionale di orientamento dell’economia, rischiano tuttavia di portare una crescita delle diseguaglianze, poiché i processi di concentrazione delle potenzialità di innovazione tecnologica tenderanno a concentrarsi in gruppi economici sempre più concentrati, sempre più globalizzati e “apolidi”.

Ci sarà quindi, la tanto invocata crescita della ricchezza, così come della produttività, ma con una costante perdita di posti di lavoro “tradizionali”. I sistemi di welfare potranno e dovranno assumersi la responsabilità di assicurare una tenuta della coesione sociale, destinando parte della nuova ricchezza prodotta, alla cura delle persone e della qualità delle relazioni. Questa funzione del nuovo welfare, è indispensabile per evitare che alle diseguaglianze economiche si aggiungano, quelle relative all’accesso alle cure e alle prestazioni di welfare.

Per questo occorre considerare il welfare una forma di investimento sul futuro, non solo come garanzia e tutela della democrazia, ma come leva di progresso per affiancare alla crescita economica anche lo sviluppo. Ed è per questo che stiamo provando a costruire internamente un progetto di Welfare.

La storia e l’esempio della cooperazione sociale Italiana, che in soli trent’anni è riuscita ad erogare servizi a milioni di famiglie, ad occupare oltre 250.000 persone, dimostra che si può sviluppare un imprenditoria solidale e sussidiaria, diffusa in modo capillare su tutto il territorio nazionale.

Ripensare il welfare come componente dello sviluppo e come oggetto di investimento, è necessario perché i sistemi di welfare dei Paesi Europei, fondati prevalentemente sul modello lavoristico, già ora sono sottoposti ad uno stress enorme rischiano di cedere. E non basterà affiancarli con un sistema assicurativo volontario per compensare le sue carenze. Un rapido riferimento al sistema di welfare totalmente assicurativo e privatistico degli USA, ad esempio, ci farebbe immediatamente comprendere i limiti.

Quello che noi cerchiamo di proporre oggi è un tentativo di sviluppare un idea di welfare che sia proattivo e fondato su tre pilastri: quello pubblico, quello assicurativo integrativo di tipo privato, quello mutualistico, responsabilizzante e collettivo. Nessuno di questi tre da solo potrebbe reggersi: il primo perché perderebbe sostenibilità economica; il secondo perché finirebbe per diventare ingiusto ed esclusivo e quindi non democratico; il terzo perché non potrebbe mai essere universalistico.

Insieme invece si alimenterebbero reciprocamente, contribuendo a costruire un sistema in grado di generare coesione e sostenibilità.

Vogliamo quindi rilanciare un’idea di welfare delle responsabilità, dove il lavoro di cura e promozione del benessere diventa occasione di promozione dello sviluppo e di valorizzazione delle capacità delle persone di contribuire direttamente alla risoluzione dei problemi che vivono.

Per questo ad esempio, abbiamo sempre più bisogno di forme di imprenditoria sociale, partecipata e capacitante, che si fondi sul desiderio fondamentale di riconoscere dignità alle persone, che è cosa molto diversa dal voler posizionare un contenitore organizzativo e imprenditoriale su un flusso di denaro, pubblico o privato che sia, per erogare servizi e prestazioni ad utenti e clienti. L’ambizione del progetto che proponiamo è quella di rendere questi ingredienti un metodo. Poiché siamo convinti che il Paese sia ricco di potenzialità, che spesso rimangono inespresse perché prive di metodo e di collegamenti, per fare incontrare le migliori idee con le migliori pratiche di realizzazione.

Dentro le reti di Federsolidarietà ci sono le idee e le proposte, che hanno l’ambizione di rendere sostenibile un sistema di protezione sociale e sanitaria, altrimenti destinato a dolorose e drastiche esclusioni di molto cittadini dalle cure e dall’assistenza di cui necessiteranno.

Per molti aspetti il sistema di welfare italiano appare accora troppo frammentato, privo di coordinamento e quindi strutturalmente fragile, con una pluralità di rete di servizi poco integrate e poco dialoganti con disparità di accesso alle prestazioni per i cittadini che stanno diventando intollerabile nelle loro differenze tra Regioni.

Noi riteniamo che sia necessario mettere le persone e le famiglie in condizione di potere accedere, seguire e partecipare alla determinazione dei percorsi di cura e tutela, che siano trasparenti e coinvolgenti e aperte all’innovazione.

In Lombardia, ad esempio, quello che 15 anni fa è stato un esempio di innovazione delle cure domiciliari, con l’accreditamento del sistema ADI, oggi è diventato un servizio irrigidito in protocolli di prestazioni che assorbono una parte importante delle risorse per adempiere a formalismi utili ad attestare il grado di “compliance” ai protocolli ma che, poco dice, della qualità della relazione con le persone servite. Oggi sappiamo già che la non autosufficienza sarà l’emergenza sociale dei prossimi decenni e che una politica adeguata è condizione minima di responsabilità. Abbiamo una spesa sociale ed assistenzialistica ipertrofica ed inerziale che si concentra troppo sui trasferimenti monetari, conseguenza della cultura del risarcimento e non dell'emancipazione. Questo, non solo ha frenato la nascita di servizi, ma alimenta un circuito di lavoro di cura sommerso e sempre al limite della legalità, che lascia sole quasi un milione di famiglie a regolare un rapporto con le assistenti familiari.

Bisogna correggere questa tendenza per trasformare i 9 miliardi che le famiglie italiane spendono per assistenza informale in spesa trasparente e produttiva. Rafforzare la rete di servizi, inoltre, permetterebbe anche la creazione di nuovi posti di lavoro. Il mero trasferimento monetario non è in grado di arginare l'impoverimento progressivo dei singoli e delle famiglie con figli o con anziani ma, soprattutto, non assicura una prospettiva e un orizzonte di uscita dalla condizione di disagio, che trova nella dimensione della presa in carico da parte dei servizi e della comunità il vero antidoto e la vera risorsa.

Se davvero vogliamo che il sistema di welfare possa essere una leva di sviluppo, abbiamo bisogno di un “new deal” dell’inclusione sociale, che sia sostenuto da una allentamento del patto di stabilità per renderlo “intelligente, sostenibile, inclusivo” escludendo le spese sostenute dai Comuni per le politiche sociali che garantiscono i livelli essenziali di assistenza.

In questa prospettiva riteniamo utile riprendere il dibattito avviato, ad inizio Legislatura, sul progetto per l’introduzione del voucher universale.

Ma serve anche migliorare il livello di integrazione sociosanitaria, premiando chi non sperpera risorse; non si fa integrazione sul territorio se non si ascolta e non si promuove chi quel territorio lo abita e ne conosce i bisogni e le loro trasformazioni. Occorre una rivisitazione degli standard di alcune strutture/servizi, spesso esagerati e costosi da raggiungere e mantenere, puntando soprattutto alla qualità della cura e della relazione, verificando gli esiti piuttosto che la conformità dei luoghi.

È certamente positiva l’azione intrapresa dal Governo che per la prima volta lancia un vero per proprio piano di contrasto alla povertà, ma è importante che, a fianco di queste importanti iniziative se ne facciamo altre, soprattutto sul piano delle politiche europee affinché anche le istituzioni Comunitarie aggiungano, alla tanta retorica sulla lotta alle povertà, anche iniziative forti e credibili per il contenimento delle diseguaglianze.

Senza interventi di riduzione delle diseguaglianze qualsiasi azione rischia di fermarsi sulla soglia dell’assistenzialismo, e noi sappiamo che una delle diseguaglianze più preoccupanti e in forte crescita è quella che riguarda proprio l’accesso ai servizi di cura di troppi cittadini verso i quali, non possiamo e non vogliono rimanere indifferenti!

nella foto di apertura una scultura di Robert Graham che rappresenta i 54 programmi sociali del New Deal del presidente americano Roosvelt


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