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Io, sopravvissuta di Chernobyl

Si chiama Diana Medri, è nata nel 1989 a Krasnopole, 300 chilometri a nord di Chernobyl. Dopo la morte dei suoi familiari avvelenati assieme ad altre milioni di persone esposte alle radiazioni, nel 2002 viene adottata da una famiglia italiana. "La mia famiglia". 30 anni dopo la terribile tragedia, Diana ci scrive questa testimonianza per condividere l'amore per "una terra che era bellissima" e il ricordo di "una primavera calda e profumata".

di Diana Medri

Il 26 aprile è un altro giorno della memoria , sono oramai passati 30 anni dalla catastrofe della centrale nucleare di Chernobyl, a Pripyat’ in Ukraina. Facciamo un passo indietro. Durante la giornata del 25 aprile 1986 è in corso nella centrale “un test volto alla valutazione” spiegano i tecnici “dei margini di sicurezza del reattore in condizioni di funzionamento a basso regime”. Un esperimento, dicono, ma qualcosa va storto. È un test che si poteva evitare, dicono; o almeno lo si poteva fare in altre condizioni e circostanze, ma si decide di farlo di notte, quando la gente è stanca; quando c’è mancanza di personale e soprattutto si bada poco alle condizioni di sicurezza.

E il tracollo avviene proprio di notte. All’una, 23 minuti e 40 secondi, un operatore preme il pulsante di emergenza. Quattro secondi dopo l’energia sviluppata all’interno del reattore supera di cento volte il valore di sicurezza. Siamo ai primissimi cedimenti strutturali. Sei secondi dopo, all’una e 23 minuti e 50 secondi, le esplosioni devastano il reattore, provocando l’espulsione in aria di otto tonnellate di materiale radioattivo. Spira un forte vento. La nube radioattiva contamina vaste aree di territorio dell’ex Unione Sovietica.

Secondo i rapporti ufficiali, 8.400.000 abitanti di quei paesi che oggi chiamiamo Ucraina, Bielorussia e Russia, vengono esposti alle radiazioni. Nella notte fonda, fiamme altissime illuminano tutto il paese di Pripyat’. E’ allarme per tutti… i pompieri si preparano, vanno a fare il loro dovere, correndo a spegnere il fuoco. Senza la tuta adatta, senza nessuna protezione e soprattutto senza sapere contro a che cose stavano andando. Il dovere chiamava, nei giorni successivi erano coinvolti tutti: professori, ingegneri, storici, fino ai magazzinieri.

Il tracollo avviene proprio di notte. All’una, 23 minuti e 40 secondi, un operatore preme il pulsante di emergenza. Quattro secondi dopo l’energia sviluppata all’interno del reattore supera di cento volte il valore di sicurezza.

Tre giorni dopo la catastrofe e nelle settimane seguenti vengono evacuate 404mila persone, ma milioni continuano a vivere nelle zone a rischio. Millecento pullman vengono mobilitati per 50mila abitanti della città di Pripyat, la più vicina alla centrale. Partono. Scappano, ma non sanno da cosa. Vanno, cambiano aria…ma per qualche giorno avevano già respirato normalmente quell’aria “anormale”, avevano calpestato a piedi nudi quella terra piena di radioattività. Un ultimo messaggio che lasciano le donne nelle case ormai sprangate dai militari: “ Uomo gentile e caro, non cercare oggetti di valore, non ne abbiamo mai avuti. Utilizza tutto ciò che ti serve, ma non saccheggiarci la casa.. RITORNEREMO.”

Ultimo frammento

I cani corrono dietro i pullman, abbaiano e i padroni li salutano. Pochi giorni dopo i “liquidatori” spareranno ad ogni animale. Pochi mesi dopo, ecco i primi morti. Adulti, bambini. La causa è sempre la stessa: tumori, leucemia. Donne incinte perdono i bambini che avevano assorbito tutto quel veleno, tutta quella intossicazione, salvando così le loro madri. Decessi accertati: 4mila; degli altri milioni di individui è ancora materia di contesa. Chi vuol vedere e chi no.

La situazione era diventata inverosimile. I bambini giocavano in mezzo al fango, senza pensare che qualcosa potesse danneggiare la loro vita, in fin dei conti sono solo dei bambini, e poi all’improvviso si ritrovano elicotteri sopra le teste, dai quali scendevano degli scienziati stranieri negli scafandri; muti, senza pronunciare una parola, senza dirci la verità. Le pozzanghere sono diventate all’improvviso gialle, gente che lavorava lì, nei dintorni balzava fuori dalle macchine vomitando, perché non si respirava, perché tutto il corpo era bruciato.
Quella catastrofe provocata dall’uomo ha portato lacrime, paura, disperazione, morte.
Attualmente non c’è più nulla. Le città come Pripyat’, Grondo e molte altre sono vuote e desertiche. Solo la vegetazione ha deciso di farsi padrone e di occupare quella terra, per renderla – almeno un po’ – meno desolata.

Donne incinte perdono i bambini che avevano assorbito tutto quel veleno, tutta quella intossicazione, salvando così le loro madri. Decessi accertati: 4mila; degli altri milioni di individui è ancora materia di contesa.

Per molti anni siamo stati i “bambini chernobyliani”, bambini di cui avere paura, da cui stare lontani. C’erano anche quelli che ci mettevano al buio per vedere se ci illuminavamo; oggi questa frase fa sorridere, allora per noi era una pena dolorosa. Eravamo uno spettacolo da circo.

I paesi europei si sono mossi immediatamente e fin da subito sono nate le associazioni che ospitano i “bambini di Chernobyl”. Questi progetti danno la possibilità a quei bambini di vedere un mondo diverso, di vedere il mare, di respirare un’aria “più pulita”.

Io ero uno di queste bambini, che però ha avuto una seconda chance; nella mia fine ho trovato il mio inizio e sono stata adottata da una famiglia italiana. Dalla MIA famiglia.

A Pripyat’ nessuno degli abitanti è più tornato. È solo un ricordo o meglio, è un incubo reale.
E ancora oggi sono lì a celebrare il passato che fu.

Perché questa era una terra bellissima, e anche quella primavera era calda, profumata.

Foto di copertina: Getty Images


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