Politica & Istituzioni

Don Mazzi: «Cara Lombardia sulle dipendenze da modello a cattivo esempio»

«Un tempo eravamo un modello nel settore degli interventi rivolti ai giovani con problemi di dipendenza. In vent’anni siamo ultimi tra le regioni italiane», scrive il prete anche a nome della Federazione Comunità Educative. E lancia un appello: «Lasciateci lavorare e liberateci da tutte le normative pseudosanitarie-carcerarie»

di Don Antonio Mazzi

La nostra Regione, un tempo modello nel settore degli interventi rivolti ad adolescenti e giovani con problemi di dipendenza, è diventata, in vent’anni di declino in questo campo, ultima tra le regioni italiane. L’educazione, che costituisce l’ossatura di una società civile, un tempo era oggetto di interesse prioritario per le istituzioni lombarde che investivano e credevano nei luoghi e nelle persone a questa dedicati, in primis le comunità educative. Ora queste sono, di anno in anno, ridimensionate. Attualmente l’aspetto valoriale della pratica educativa si sta snaturando, lasciando il posto a logiche decisionali e di programmazione diverse che spesso la allontanano dal suo compito: logiche, quando va bene, di tipo sanitario, altre volte più brutalmente di mercato.

Come prima evidenza di questo stato di cose è sufficiente prendere l’importo della retta giornaliera per le Comunità educative: 44/52 euro in Lombardia, 63 in Calabria, 78 nelle Marche (solo per citare alcuni semplici esempi, in altre regioni ci sono rette ancora più alte). Solo i numeri contano per le amministrazioni e questi numeri attestano l’intensità dell’investimento per questo tipo di intervento: Lombardia ultima.

Eccovi qui due punti sui quali vi chiediamo di intervenire.

Il primo riguarda proprio il cuore della questione: il processo di “riforma” sanitaria in corso rischia di cancellare il patrimonio proprio e specifico delle Comunità che consiste esattamente nell’essere un importante, e a volte unico, presidio educativo dedicato a persone in gravi difficoltà e situazioni spesso drammatiche.

Stiamo attenti che con questa manìa di schematizzare, sanitarizzare e omogeneizzare tutto non si vada a trasformare le Comunità in piccole o grandi cliniche. Questo è uno scenario che vediamo con molta preoccupazione già in atto: le ispezioni delle ATS presso le comunità verificano sempre più carte, in questi anni è aumentata sensibilmente la burocrazia, spesso a scapito della qualità. L’altro giorno in una comunità è arrivata la vigilanza, tra le molte cose ha controllato una cartella (il FASAS!) e ci hanno fatto grandi complimenti: “bene, molto bravi, fate sempre così, questa cartella è perfetta.” Peccato che quella fosse la documentazione dell’unico ragazzo che avevamo perso, non siamo stati capaci di agganciarlo con una relazione positiva! Ci chiediamo, per esempio, come si faccia a pensare che nelle nostre case, dove sono presenti dieci, venti o al massimo trenta persone, quello che conta sia la figura del “direttore sanitario” o che gli educatori debbano avere addosso un cartellino con il proprio nome e cognome… Già riteniamo siano forzature per un carcere, figuriamoci per una comunità! Nessuna persona che abbia una minima idea di quello che è una relazione educativa può pensare che sia più importante il registro, o meglio, i tanti registri che vengono richiesti, piuttosto che una biblioteca, una palestra, un intenso calendario di attività, una sana e sincera relazione con gli altri…

Il secondo punto discende dal primo e riguarda la funzione che svolgono le comunità, il ruolo che si vuole assegnare alle Comunità nel quadro della “riforma”.

Se abbiamo capito qualcosa sulla centralità dell’educazione, specie in questo momento di crisi certamente non solo economica che stiamo attraversando, non possiamo assegnare alle comunità il solo compito di “ultima spiaggia”. Si vede avanzare una deriva sanitaria che assegna ad ogni piccolo problema umano un nomignolo medico che termina con “-patia” per il quale è stata studiata la relativa medicina. Di conseguenza davanti ad un ragazzo diciannovenne con una pessima relazione con i genitori, che dopo qualche gesto violento ha iniziato l’uso di sostanze, si comincia con colloqui psicologici e/o psichiatrici, poi con i farmaci, spesso ci scappa anche una carcerazione e, solo quando le condizioni di vita di quel ragazzo sono disastrose, arriva la proposta della comunità. Spesso la (il)logica che si percepisce è: prima proviamole tutte poi se non funziona niente rimane questa come ultima possibilità. Attenzione, uomini e donne della politica e delle istituzioni, non dobbiamo trasformare le comunità in cronicari, la loro funzione principale è quella preventiva. A loro va dato il compito di intervenire non appena si manifestano i primi problemi, quando è ancora possibile ritessere i legami appena sfilacciati. Non bisogna aspettare il disastro.

Per cui liberiamo le nostre strutture da tutte quelle normative pseudosanitarie-carcerarie! Lasciateci lavorare, la nostra storia parla in modo eloquente, le modalità ispettive e le continue malfidenze e diffidenze vanno superate. La prevenzione è l’arma più efficace e più urgente, l’abbiamo avviata e funziona. I programmi li abbiamo presentati e discussi più volte, adesso urgono funzionari con i quali sia possibile lavorare con pari dignità e pari importanza, uomini a cui stiano a cuore le Persone, se ne sono rimasti.


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