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Politica & Istituzioni

«Io, Sumaya, candidata con il velo»

È stata una delle protagoniste della campagna elettorale a Milano. Messa nel mirino dalla stampa di destra. Ben accolta dalla gente negli incontri pubblici o in quelli ai mercati. «Mi ha colpito la tanta povertà che ho incontrato. Un fenomeno molto più esteso di quanto sospettassi». L'intervista

di Giuseppe Frangi

In una campagna elettorale tranquilla come quella per la poltrona di sindaco di Milano, lei certo non l’hanno lasciata tranquilla. Sumaya Abdel Qader, 37 anni, tre figli, è candidata nelle liste del Pd, porta il velo ed è stata il bersaglio preferito di chi ha cercato di attizzare il fuoco della minaccia islamica per portare un po’ di voti nella cascina del centro destra. «Francamente non mi aspettavo tanti attacchi. Ci sono giornali che mi hanno messo nel mirino con uscite quotidiane», racconta Sumaya. Che comunque non è affatto pentita di essersi buttata nella battaglia elettorale. «Avevo sottovalutato questo aspetto. Ma devo dire che ciò che è accaduto sul piano mediatico non ha nulla a che fare con quello che ho riscontrato nella realtà. Ho fatto campagna elettorale dal basso, frequentando i mercati, incontrato persone nelle associazioni cittadine, nei quartieri…. Sono sempre stata accolta bene. In tutte queste settimane solo in due casi mi sono sentita apostrofare, perché porto il velo».

Lo slogan che ha scelto dice “Milano guarda avanti”. Avanti in che direzione?
Innanzitutto oltre gli stereotipi e i pregiudizi. Ma avanti anche sul fronte dell’emancipazione delle donne. Io sono impegnata in prima linea nel Progetto Aisha che è nato per contrastare la violenza contro le donne e la loro discriminazione. È un progetto con il quale vogliamo sensibilizzare al tema e promuovere una cultura del rispetto e dell’amore sano. Ma vogliamo anche scardinare quei retaggi culturali che discriminano la donna e che giustificano atti di violenza contro di lei, contro ogni principio dell’islam.

Guardare avanti significa anche vincere il rischio di fondamentalismo nella comunità islamica?
Certamente. Uno degli obiettivi del mio programma è anche quello di contribuire a pervenire e combattere il radicalismo dei giovani. Per questo è importante lavorare su due piani: riconoscere i centri islamici e le moschee che possono insegnare un Islam equilibrato lontano dal fanatismo e anche lavorare su un piano educativo e culturale. Quest'ultimo va fatto in modo trasversale anche nelle scuole per evitare il proliferare di razzismi e pregiudizi. Bisogna far conoscere le diverse identità che oggi vivono in una grande città come Milano. Il comune di Milano porta già avanti un progetto di questo tipo, ma troppo spesso ci si ferma al piano della reciproca conoscenza sul piano religioso. Invece si deve lavorare anche sulla conoscenza delle rispettive culture. Conoscere vuol dire poi rispettarsi. Fossi eletta mi piacerebbe lavorare anche su questi obiettivi.

A Milano la popolazione straniera sfiora il 25 per cento. Ma le voci che la rappresentano son poche. Tu sei l’unica che abbia fatto sentire la sua voce…
La comunità musulmana in città conta circa di 60/70 mila persone. Ma gli aventi diritto al voto si stimano attorno ai 7mila. Questo significa che l’incidenza è ancora minima ma significativa. Io del resto cerco il voto anche degli italiani, perché le cose da fare per la città riguardano tutti. Ad esempio il tema della povertà, della casa, dell'accessibilità e disabilità. Quello della povertà in particolare mi ha colpito, è più esteso di quanto immaginassi. In generale il ritornello che più ho sentito ripetere dalle persone è quello del “non voto”. C’è una sfiducia nei confronti della politica molto più profonda di quanto non potessi immaginare.

Uno dei temi che hanno scaldato la campagna elettorale è quello delle moschee a Milano. Tu che risposta dai?
Che bisogna sbloccare la situazione, regolarizzando quelle che ci sono e assegnando le aree alle associazione che hanno vinto il bando. Non credo alla grande moschea unica, anche perché non rispetterebbe i bisogni del territorio e la pluralità delle comunità. Preferisco le moschee di quartiere, dove la gente può andare a piedi, senza attraversare la città. Moschee che siano anche degli attori sociali su quelle zone. La moschea deve essere anche un presidio culturale. Ad esempio il progetto messo a punto per l’area dell’ex Palasharp e disegnato da un grande architetto come Italo Rota, prevede che nei momenti non di preghiera la moschea si trasformi in una biblioteca attraverso un sistema elementi modulabili. Un progetto in partnership con Sant’Egidio, Fondazione Feltrinelli, Razzismo una brutta storia, Emergency ed Arci. Una struttura per la comunità musulmana ma anche per tutta la città.


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