Cooperazione & Relazioni internazionali

Rifugiati. Troppe frontiere, poche parole

Fuggono da qualcosa o si dirigono verso qualcosa? Scappano dalla guerra o cercano l’ennesimo paradiso in terra? Incubo o miraggio? Difficile rispondere senza allargare il quadro e senza capire che le nostre parole per definirli appartengono a un lessico che non è più in grado di cogliere i profondi processi in atto in Europa e alle sue frontiere

di Marco Dotti

Il nostro linguaggio è insufficiente. Parole come “migranti” o “rifugiati” non colgono il senso dei flussi emergenti di gente sempre più disorientata e disperata che si muove e attraversa il pianeta ma senza avere una meta precisa. La loro migrazione viene da uno sradicamento e produce sradicamento: questo inquieta. Proprio nel cuore di questo processo di globalizzazione, in un’Europa che si voleva senza confini, senza muri, senza barriere, muri, confini, barriere hanno ricominciato a crescere. E a marcare uno spazio, istituendo un dentro e un fuori, caratteristiche di ogni spazio chiuso, ma anche limbi entro i quali è sempre più facile cadere, venendo risucchiati in un “fine pena mai”.

Finora, i flussi massicci di sfollati, conseguenza dei fenomeni di povertà estrema, di conflitti armati e disastri ambientali solo in minima parte ricadevano sul “nord globale” del pianeta. Fino al 2011, circa l’80% dei profughi era ospitato nei Paesi del sud del mondo e circa 5 milioni di profughi risiedeva in Paesi con un Pil pro capite annuo inferiore ai 3000 dollari. Poi le cose hanno cambiato verso e alcune proiezioni importanti parlano di un esodo potenziale e potenzialmente catastrofico per l’Europa entro il 2050.

Nel mondo polarizzato non solo fra nord e sud, ma anche fra est comunista e ovest democratico l’Europa conosceva una forma di migrazione interna, orizzontale, che è stata capace di armonizzare, puntando su valori inclusivi. Ricordiamo solo il fatto che, nel 1956, dopo la repressione militare più di 250.000 persone lasciarono l’Ungheria cercando e trovando riparo nell’Europa non comunista. O che oltre 2 milioni di cittadini polacchi, in vent’anni, dal 1980 al 2000, hanno fatto lo stesso percorso. Il crollo del Muro di Berlino ha significato, non solo simbolicamente, l’apertura al mondo, ma anche la caduta della tensione est-ovest e l’intensificazione del rapporto fra nord e sud del mondo. Oggi, questo rapporto ha subito un’accelerazione radicale per quanto riguarda i flussi migratori.

Sono le cifre a dircelo: l’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR) stima che lo scorso anno siano state 590.585 le persone arrivate in Europa via mare, su un totale di 700.000 persone. Ben diversa, in termini quantitativi dalla migrazione dei 250mila dopo i fatti di Ungheria. Tra i richiedenti asilo in Europa, l’UNHCR ci ricorda che 1 persona su 4 è un bambino. In totale, tra gennaio e luglio 2015, 141.525 bambini hanno richiesto asilo in Europa, con una media di 20.217 al mese, secondo i dati Eurostat del 9 ottobre 2015.

Un mondo in frantumi, ma un Pil globale in crescita


Secondo le Nazioni Unite, la popolazione dell'Africa subsahariana passerà dagli attuali 960 milioni a 2,1 miliardi di abitanti nel 2050. Dinanzi a un'Europa che non genera più, l'Africa è ancora il continente con il tasso di fecondità più elevato sull'intero pianeta.

Ricordiamo a titolo di esempio che nel 1964, nella sola Germania si registravano 1milione 350mila nascite l'anno, a fronte della attuali 600mila, mentre con 4,7 bambini per ogni donna l'Africa è il primo continente rispetto a una media mondiale di 2,5 bambini a donna. Oggi, la Germania è anche il Paese con il più basso indice di natalità al mondo. Flussi migratori e natalità zero sono due delle possibili cause di implosione del sistema- Europa. Negli ultimi dieci anni la percentuale di povertà complessiva in Africa è diminuita, ma il numero totale di africani che vivono sotto la soglia di povertà – stimata in 1,25 dollari statunitensi al giorno – è aumentato.

Un paradosso? Secondo logica e buon senso sì, ma secondo la logica e il non senso di questa deriva speculativa che ci ostiniamo a chiamare "globalizzazione" questa è la norma: i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e gli Stati mantengono brandelli di inutile sovranità, là dove ciò che è decisivo è stato dislocato altrove, in zone extragiuridiche (offshore) o nelle mani delle corporations che controllano ogni fonte primaria, dal petrolio all'acqua.

Analisti geopolitici, con realismo affermano però che proprio da qui – e proprio da ciò che, se visto sotto altri aspetti, "accelera" la crescita del Pil – verrà la migrazione sistemica prossima ventura, di cui oggi l'Europa sta solo iniziando a vedere i primi effetti. I nuovi migranti saranno environmental migrants, profughi totali costretti a muoversi senza fine. A sradicare i nuovi profughi non sono più solo guerre e privazioni, ma anche progetti di sostegno e sviluppo. In un mondo multipolare, non esistono "migrazioni a somma zero" e non esistono "grandi opere" che non abbiano un impatto sistemico. Sistemico significa che, date certe cause – ad esempio la costruzione di una diga – non sapremo dove e come si verificheranno le conseguenze ultime di quell'azione. La reazione è a catena, a effetto domino. Ma talvolta è carsica o a spirale, come nel fenomeno delle migrazioni.

Prove di grande esodo

Nel 2007, in un rapporto di Christian Aid, Organizzazione non governativa caritatevole, che raggruppa chiese inglesi e irlandesi e lavora sui temi della lotta alla fame, alla povertà e alla desertificazione globale – di parlava di un settimo della popolazione mondiale che, nel 2050, sarà costretta a lasciare il proprio Paese per fuggire non solo da situazioni di conflitto dichiaratamente bellico, ma dai disastri direttamente o indirettamente provocati dal cambiamento climatico.

Nello studio, significativamente titolato Human tide, the real migration crisis (La marea umana, la vera crisi migratoria) si legge che entro il 2050 il cambiamento climatico creerà in tutto il pianeta almeno un miliardo di rifugiati. Un mondo con molti Darfur sta diventando una minaccia sempre più reale. Dal documento di Christian Aid apprendiamo che entro i prossimi quarant'anni, 645 milioni di persone si troveranno costrette a lasciare il proprio Paese, la propria casa e i propri affetti a causa di grandi progetti di sfruttamento intensivo delle risorse minerarie, dalla svendita dei terreni coltivabili alle multinazionali (land grabbing) e dalla costruzione di dighe per centrali idroelettriche. Altri 250 milioni di persone fuggiranno dalla desertificazione e da un surriscaldamento climatico il cui impatto sarà avvertito soprattutto in determinate aree del pianeta, mentre 50 milioni di persone fuggiranno da conflitti armati generati da quelle stesse catastrofi o dalle conseguenze delle stesse migrazioni

Già oggi l’Europa accoglie la quota maggiore, pari al 31,3% del totale dei migranti globali. Masse o moltitudini spinte dalla desertificazione, dalla crisi economica e dal panico riconfigureranno completamente il volto economico, demografico e culturale anche di quella parte del pianeta che ancora si definisce "Occidente", in primis l'Europa.

Un nuovo paradigma: dalla migrazione all’espulsione


Secondo la sociologa Saskia Sassen della Columbia University di New York c’è un nuovo, terribile paradigma col quale dobbiamo fare i conti. È il paradigma dell’espulsione. Espulsione di individui, comunità, imprese, luoghi e pratiche di vita. Chi arriva, chi fugge, chi disperato eppure carico di speranza cerca; è solo il terminale di una nuova logica, sistemica e devastante, che sta prendendo corso nelle società avanzate: la logica dell’espulsione. Per Sassen bisogna sì criticare chi alza muri e reclama nuovi confini, ma bisogna preliminarmente e “concettualmente” rendere visibili gli invisibili, illuminare le soglie, scoperchiare i limbi. Capire le nuove soglie dell’esclusione non è mero esercizio accademico. È una necessità per una società civile che rischierebbe, altrimenti, di venir meno ai suoi presupposti. Queste soglie “sono tantissime, stanno crescendo e vanno diversificandosi. Sono potenzialmente qui i nuovi spazi in cui agire, in cui creare economie locali, nuove storie, nuovo modi di appartenenza”, spiega la Sassen. Ma per agire bisogna capire.

Che cosa sta accadendo in Europa? Le politiche europee in materia di rifugiati sono sorprendenti per il cinismo e la schizofrenia, ma anche per la lentezza con cui si articola il percorso decisionale di Bruxelles. Al contrario, gli Stati membri si mostrano velocissimi quando si tratta di alzare muri e confini materiali. Il livello della responsabilità politica è sfidato dalla complessità dei flussi e dal fatto che il potenziale totale di questi flussi è 15 volte superiore a quello finora affiorato. Mentre perdiamo tempo, le guerre continuano senza sosta. A questa sfida l’Europa risponde guardandosi alle spalle. Viene data così una risposta regressiva: reinstallare i confini e costruire muri in cima ai vecchi confini. E si abbandona la Grecia, ma anche l'Italia, a una sofferenza che è anche economica ma non solo. La storia non sarà tenera con i responsabili delle politiche europee. Abbiamo però bisogno di un altro linguaggio, ci serve una nuova lingua.

C'è stato un tempo in cui le differenze erano chiare e l'immigrato si lasciava una casa alle spalle. Oggi che il migrante non si lascia più nulla alle spalle, c’è comunque chi pensa che per affrontare un problema tanto complesso “rimandarlo a casa” – anche se la casa non c’è – sia una soluzione moralmente condannabile, ma politicamente realistica. Questa risposta configura al tempo stesso una forma nuova di brutalità e una soluzione fallimentare, ovvero non è una soluzione. Credo invece che le soluzioni di cui avremmo bisogno dovrebbero includere e comprendere ciò che sta accadendo nelle aree di origine e provenienza dei migranti. Non possiamo spostare tutto il peso della “soluzione” sulle spalle di donne, uomini e bambini in fuga da situazioni d’inferno. C’è uno scenario più grande che deve essere inquadrato e messo a fuoco.

L’Europa potrebbe offrire un punto prospettico importante per mettere a fuoco questo scenario, eppure anche qui difettiamo di sguardo. Tanti punti di vista, ma nessuna prospettiva e la policygenerale che si rapporta alla realtà dei crescenti spostamenti di persone è oggi tutta orientata sulla guerra. La guerra è vista come causa principale delle migrazioni. Abbiamo bisogno di allargare il campo, come dicevo, capendo che ci sono altri fattori in gioco oltre alla guerra. Ci sono le tossicità prodotte dai pesticidi e dalle estrazioni minerarie, gli effetti del cambiamento climatico e molte altre condizioni che alimentano la rapida crescita del numero degli sfollati in tutto il mondo. Abbiamo bisogno di una molteplicità di politiche e di una vasta gamma di interventi. Ci vuole una bella sveglia per la policy attuale, che non è preparata a affrontare nuove condizioni che producono enormi spostamenti di massa, ma non è nemmeno disposta a far fronte alle conseguenze di questi spostamenti. Questo cambio di azione e di visione richiederà la presenza di reti globali di policy makers che affrontino le istanze specifiche di determinate regioni o Paesi, riconoscendo ad esempio la necessità di nuovi tipi di politiche sovranazionali.

Immagini: Getty.

Questo articolo è tratto dal numero di giungno di Bene Comune.net, dedicato ai migranti


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