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Cooperazione & Relazioni internazionali

Storie di vita dal campo di Zaatari

Un reportage all'interno del campo profughi giordano a 10 chilometri dal confine con la Siria e due ore di macchina da Amman che ospita 80 mila persone fuggite dalla guerra

di Giulia de Robert

Il sole é accecante e il caldo torrido. Il terreno arido rende questo posto duro e inospitale. Difficile credere che questo luogo possa ospitare migliaia e migliaia di profughi siriani fuggiti dalla guerra in Siria.

Mi trovo al campo profughi di Zaatari in Giordania a 10 chilometri dal confine con la Siria e due ore di macchina da Amman. Dal 2011 la guerra civile in Siria ha causato oltre 4 milioni di profughi, fuggiti verso i paesi limitrofi come Turchia, Libano e Giordania oppure verso l’Europa, nel disperato tentativo di raggiungere protezione e sicurezza. La Giordania ospita 655 mila rifugiati siriani. Di questi, 80 mila sono ospitati a Zaatari, il campo profughi piú grande al mondo dopo quello di Dadaab in Kenya.

All’arrivo al campo base dell’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR) mi attendono i colleghi. Oggi sono qui non in veste Onu ma per una visita del campo e per ascoltare alcune storie dei profughi.

I colleghi mi raccontano che quando il campo aprí nel 2013, l’idea era quella di un campo temporaneo. Nessuno avrebbe pensato che la guerra in Siria sarebbe durata cosi a lungo e la crisi cronicizzata. Da quello che era un campo con poche centinaia di famiglie é poi diventato una vera e propria cittá. Qui si trovano scuole, negozi, ospedali. Tutto rigorosamente sotto tetti di lamiera perché in questo campo palazzi in muratura non possono essere costruiti, né tanto meno strade asfaltate. Questo perché il campo é nato come temporaneo e tale deve rimanere. Si apre cosi davanti a me una distesa di lamiera dove i profughi – la maggior parte di cui provenienti dal ceto medio-basso della Siria- lavorano, crescono, vivono e invecchiano.

Le principali agenzie umanitarie Onu sono presenti sul territorio e insieme a loro molte Organizzazioni Non Governative che con il loro lavoro e la loro dedizione cercano di aiutare come possono la vita di queste migliaia di profughi.

La strada principale del campo, chiamata affettuosamente “Champs Elysées” (nella foto di copertina), brulica di negozi. I colleghi dell’UNHCR mi raccontano che il commercio nel campo si é sviluppato in breve tempo. Si trova di tutto qui, addirittura negozi che vendono abiti da sposa. Infatti qui i matrimoni, mi dicono, sono all’ordine del giorno. Nonostante la guerra, la vita va avanti e i profughi cercano comunque di continuare a vivere una vita pressocché normale anche se di normale ha ben poco. Ogni giorno nel campo si celebra almeno un matrimonio e sono molti i bambini che nascono e crescono qui.

La visita del campo prosegue. Vedo moltissimi bambini in giro e chiedo come mai a quest’ora del giorno non siano a scuola. I colleghi UNHCR mi dicono che purtroppo molti bambini non vanno a scuola nonostante ci siano ben 12 scuole nel campo. Alcuni genitori, infatti, preferiscono che i loro figli vadano a lavorare per guadagnare qualcosa in piu. La maggior agenzia dell’Onu che si occupa dei bambini e dei loro diritti, l’UNICEF, lavora per combattere questo trend ma mi dicono anche che é difficile costringere le famiglie a mandare i loro figli a scuola.

Mentre camminiamo sugli Champs Elysées i profughi ci chiamano per scattare foto con noi. Sono poche le persone che dall’esterno hanno il permesso di entrare a Za’atri, quindi nei loro visi c’é tutto lo stupore e l’entusiasmo di essere loro ospiti. Mi colpisce il fatto che dopo la sofferenza della guerra e l’abbandono della loro terra, abbiano ancora la forza di sorridere. Per loro essere stati accolti in questo campo é gia una vittoria. E nonostante si trovi nel bel mezzo di una distesa arida e polverosa, questo campo é per loro fonte di sicurezza.

Ci spostiamo verso una scuola che offre corsi di arte e pittura a bambini e adulti. Li incontriamo Mohamed, Ibrahim, Yasser e Ahmed, quattro artisti che hanno tradotto in opere d’arte il loro senso di appartenenza alla Siria.

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Le pareti della scuola sono tappezzate di dipinti e miniature raffiguranti la ricchezza culturale siriana, tra cui Palmyra. Mi guardo intorno e inizio a vedere peró anche dipinti che racchiudono in sé tutta la sofferenza della guerra.

Sono dipinti da adulti ma anche da bambini. Bandiere della Siria, bombe che piovono da cielo e tende dell’UNHCR sono raffigurati nei dipinti dei bambini. Tra quelli degli adulti, invece, ce n’é uno che mi colpisce : é quello che raffigura il piccolo Aylan di tre anni, trovato morto sulla spiaggia vicino a Bodrum in Turchia dopo il naufragio della sua barca che trasportava lui e la sua famiglia sulla costa turca. Dopo quella foto, l’Europa decise finalmente di reagire, la Germania prima tra tutti con la sua decisione di accogliere un milione di profughi siriani nel suo territorio.

«Le nostre sculture vogliono essere un modo per trasmettere alle nuove generazioni la bellezza culturale della Siria perché loro non hanno avuto il tempo di vederla» mi spiegano gli artisti. C’é chi come Mohamed ha realizzato Palmyra in miniatura, andata distrutta dall’Isis. O chi, in senso di gratitudine verso la Giordania che li ha accolti, ha riprodotto in ceramica la facciata del Tesoro di Petra.

Ci sono anche storie di successo. Ibrahim ha dipinto una serie di quadri raffiguranti la Siria che sono stati venduti negli Stati Uniti. Yasser, invece con la sua camicia e berretto bianco, ci racconta che é arrivato qui nel 2013 e che prima di fuggire, in Siria era costretto a fare il contadino nonostante la sua laurea in ingegneria per via della sua adesione all’opposizione governativa. Yasser ha riprodotto il castello della sua cittá natale, Aleppo, andata quasi interamente distrutta. É orgoglioso di mostrarci la sua opera e la sua città.

Quando chiedo a Ibrahim se pensa di rimanere nel campo oppure di andare in Europa, mi risponde che quello che vuole veramente é tornare a casa sua in Siria. Di fronte alle loro risposte, ogni pensiero e ogni parola diventa banale.

Questa folle guerra ha spezzato le vite di migliaia e migliaia di siriani, cancellando un’intera generazione di giovani, privandoli dei loro sogni. I ragazzi di Za’atri non sanno quando potranno tornare nella loro amata Siria. Quello che si sà, qui a Za’atri, é che fino ad allora la vita andrá avanti com’è andata finora e che qui, qualcuno, per loro ci sará sempre per aiutarli a continuare a credere nei loro sogni.


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