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Politica & Istituzioni

Brexit, l’Europa non chiuda i ponti con la Gran Bretagna

L’economista Marcello Esposito non ha dubbi: «Il fare in fretta nello sbrigare la pratica equivale al trattare la questione come se fosse qualcosa da cui trarre vantaggio. Azioni di piccolo cabotaggio di fronte ad un vento drammatico e catastrofico per l’idea stessa di Europa»

di Lorenzo Maria Alvaro

Nel secondo giorno del Consiglio europeo sulla Brexit piomba a Bruxelles la premier scozzese Nicola Sturgeon, leader del partito nazionalista al governo a Edimburgo ormai dal 2007. Vuole che le istituzioni Ue la ricevano. Perché al referendum britannico la sua Scozia ha votato per restare in Ue e ora lei vuole tutelarla: ha un mandato a trattare o almeno parlare con l’Unione. E’ una mossa che mette in imbarazzo i leader europei. Tanto che il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk decide di non ricevere Sturgeon.

«Non è il momento adatto», fanno sapere dal suo entourage. Fosse finita qui, questa sarebbe una storia di formalità. E invece la visita di Sturgeon provoca lo strappo del presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, il più arrabbiato in questi primi giorni dell’era Brexit. Una di quei gesti, visti in questi giorni, che Marcello Esposito, intervistato da Vita.it, giudica segno «della pochezza delle classi dirigenti europee che sembrano proprio non capire la portata degli eventi che sono chiamati a gestire».


Unione Europea o Gran Bretagna. Chi perde di più con la Brexit?
Perdono tutti. La Gran Bretagna ci perde perché nel breve rischia l’unità interna, cosa che in parte è già avvenuta analizzando i flussi elettorali, ma è concreta adesso anche la possibilità del referendum indipendentista in Scozia. Sul lungo periodo è difficile valutare quale possa essere l’impatto sulla city di Londra del tremendo doppio ko rappresentato dall’uscita dal mercato unico e dalla perdita possibile della Scozia. L’Unione Europea invece perde da un lato una delle potenze economiche più importanti, si apre una fase molto probabile di recessione che arrivando dopo un lungo periodo di stagnazione rischia di mettere al tappeto le economie e i settori più deboli, si veda quello che è successo in borsa alle banche europee in particolare a quelle italiane. Ci sono poi tutte le conseguenze politiche sul lungo periodo. Gli strascichi della tornata referendaria sulle prossime elezioni politiche europee in Francia e Germania, portano il fortissimo rischio di correnti populiste e antieuropeiste.

Quali errori deve evitare l’Unione nelle trattative con la Gran Bretagna?
L’errore da evitare è quello di un atteggiamento punitivo da parte dell’Ue nei confronti di Uk. Il chiudere e tagliare i ponti sarebbe catastrofico. Una delle cose che fa più tristezza, oltre al risultato del referendum, è vedere alcuni esponenti di spicco del Parlamento Europeo, delle Istituzioni europee e dei Governi europei chiedere l’espulsione immediata. Il fare in fretta nello sbrigare la pratica equivale al trattare la questione come se fosse qualcosa da cui trarre vantaggio. Azioni di piccolo cabotaggio di fronte ad un vento drammatico e catastrofico per l’idea stessa di Europa. Questo sembra un altro segno della pochezza delle classi dirigenti europee che sembrano proprio non capire la portata degli eventi che sono chiamati a gestire.

C’è chi dice che Nigel Farage è figlio di Jean Claude Juncker. Si può dire?
Assolutamente. Lo scambio di battute che c’è stato ieri in Parlamento sembrava proprio un battibecco fatto allo specchio. Non si può ridurre un fenomeno come l’uscita della Gran Bretagna ad un litigio davanti all’avvocato divorzista. Il voto inglese, per quanto possa non piacere, è sicuramente una reazione ad una situazione.

Qual è il problema? Contro cosa hanno votato gli inglesi?
Il problema è che l’Europa è stata caricata di significati che al momento non ha o non può avere. Il fatto stesso che da un lato si invochi un fisco comune, una condivisione della politica estera e di difesa e poi di fronte al referendum inglese la preoccupazione maggiore sembra essere quella di accaparrarsi la sede di qualche organismo europeo basato a Londra dimostra come esista un gap enorme tra la realtà Europea e la sua rappresentazione a fini politici. Gli inglesi o hanno votato contro questa Europa, o contro una sua rappresentazione.

Qua è il primo passo per cambiare l’Europa?
Riconoscerne i limiti e ciò che può effettivamente fare. Smettendo di attribuirle compiti che non ha o che oggi non può svolgere.

Ma tecnicamente da cosa si deve cominciare per dare una svolta al percorso dell’Unione che ormai sembra aver perso ogni appeal e spinta?
Bisogna partire dalle questioni che l’Europa deve risolvere per continuare a rimanere un’area di libero scambio e di libero movimento. Ad esempio la tassazione dei redditi da capitale è differenziata tra Paese e Paese. Questo apre lo spazio ad arbitraggi fiscali spaventosi che danneggiano i Paesi più deboli e quindi la loro popolazione, ed accrescono la sensazione che la globalizzazione è qualcosa di cui godono solo coloro che possono scegliere la residenza fiscalmente più vantaggiosa. Sia essa di persone, banche o società. L’Europa è diventata il più grande paradiso fiscale per le corporation. Il capitale è il fattore più mobile. Se l’Europa esiste, se l’Europa significa equità, bisogna che il capitale sia tassato in maniera uniforme dal Lussemburgo, il Paese da cui viene Juncker, fino alla Grecia.

Quindi all’orizzonte c’è il superamento dell’austerità?
Le regole vanno rispettate. Chiedere ad un organismo tecnocratico di applicare la discrezionalità politica nell’interpretazione delle regole è un’altra di quelle cose che non può far altro che alimentare le derive populiste. Perché da un lato l’organismo tecnocratico non può operare discrezionalmente e se lo fa si espone alle critiche facili da parte di chi paga il conto.

Quindi non è auspicabile un Europa più politica e meno tecnica?
Sarebbe giusto e opportuno muoversi verso una Unione fiscale e politica. Ma i tempi sono maturi? Non mi sembra. E quindi bisogna giocare con le regole che ci siamo dati. E cercare di fare bene.


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