Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Cooperazione & Relazioni internazionali

Cervelli in fuga? In Italia si rimpiazzano con i migranti

Uno studio realizzato per l'Istituto di Studi Politici "S. Pio V" dal centro studi Idos rivela: «A compensare l'emigrazione italiana dei giovani sono gli immigrati stranieri diplomati e laureati. In quindici anni sono aumentati da meno di 1,5 milioni a 5 milioni coprendo ampiamente il numero degli espatriati»

di Monica Straniero

L'emigrazione di personale qualificato più volte stereotipata nella cliché della “fuga dei cervelli”, traduzione italiana di “brain drain" coniato nei primi anni '60 dalla Royal Society inglese, fa pensare a una abnorme fuoriuscita di esperti con conseguente impoverimento del paese e ciò non poteva non richiamare l’attenzione della comunità scientifica. Lo studio “Le migrazioni qualificate in Italia: ricerche, statistiche, prospettive” realizzato per l'Istituto di Studi Politici “S. Pio V” dal centro studi Idos, ha raccolto numerosi contributi finora prodotti sui flussi di migranti qualificati che coinvolgono l’Italia in entrata e in uscita, riferiti quindi non solo ai migranti che con programmi come la Blue card europea vengono in Italia, ma anche ai giovani italiani in possesso di qualifiche elevate, universitarie o postuniversitarie, che cercano lavoro.

Come ha fatto osservare Antonio Iodice, Presidente dell’Istituto di Studi Politici S.Pio V nel corso dell’evento di presentazione della ricerca che si è svolto ieri a Roma, “non si spostano più, come una volta, solo i manovali e i contadini per trovare un qualsiasi posto di lavoro all’estero. A lasciare l’Italia sono soprattutto i giovani che hanno una formazione universitaria e aspirazioni elevate, ma sono stanchi di attendere un lavoro o di ottenerlo solo in forma precaria in un contesto come quello italiano che ancora risente degli effetti della crisi iniziata nel 2008. La ricerca si pone quindi l’interrogativo se, a lungo andare, le partenze di giovani qualificati rappresentino un depauperamento del paese o se possano esserci anche aspetti compensativi, tra cui l’immigrazione dall’estero”

La ricerca parte dai dati Istat relativi al 2015, anno in cui sono rimpatriati 30 mila italiani, mentre 102 mila connazionali hanno spostato la propria residenza in paesi esteri. Circa la metà degli espatriati è costituita da laureati e diplomati. Dal 2002 al 2015 si calcola che abbiano lasciato l’Italia 202mila diplomati e 145mila laureati, non compensati dagli italiani che hanno preso la via del ritorno. La causa fondamentale dell’esodo degli italiani non consiste solo nelle retribuzioni più elevate praticate all’estero, ma anche nella maggiore affidabilità del sistema universitario e di quello aziendale. Peraltro, rispetto agli altri paesi, in Italia la quota di laureati è comparativamente più bassa che in altri paesi dove questi risultano maggiormente valorizzati. Ad esempio, negli Stati Uniti, secondo una ricerca del Cnrr, sarebbero ben 25mila i professionisti italiani che occupano posizioni di alto livello, e ben 3500 di loro sono occupati in ambito accademico.

Ma sono aumentati anche i giovani italiani che scelgono di frequentare l’università all’estero. I giovani spostatisi temporaneamente con il programma Erasmus nell'anno accademico 2014/2015 sono 30.875 (24.475 per studio e 6.400 per tirocinio): primo paese di destinazione è la Spagna e prime regioni di partenza sono la Lombardia e il Lazio. Gli studenti italiani si trasferiscono anche per frequentare all'estero il normale corso di laurea (82.450 nel 2013, inclusi però anche i figli degli immigrati residenti in loco) e il primo Paese per iscrizioni è il Regno Unito.

«L’Italia dispone di un capitale umano in larga misura non valorizzato. Ai tre milioni di disoccupati, per la metà giovai tra i 15 e 34 anni, si aggiungono quasi 1,8 milioni di inattivi perché scoraggiati e 3 milioni di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare, per un totale di capitale umano non utilizzato di quasi 8 milioni di individui», si legge nel rapporto. Tra questi ci sono tanti giovani che vorrebbero fare della ricerca il loro impegno professionale prioritario nel nostro paese, e non vengono messi nelle condizioni di poterlo fare.

Il motivo? In Italia, gli investimenti nella ricerca e sviluppo sono solo l’1,29% del PIL, si è quindi ben lontani dall’obiettivo ottimale posto dall’Unione Europea del 3%. Va inoltre tenuto cono che il 24,2% della spesa italiana in R&S proviene da imprese estere. Secondo l’Istat al 2013 i ricercatori italiani impegnati in attività R&S sono circa 247mila, 4 ogni 1000 abitanti. “Un altro dato non soddisfacente è il fatto che solo 1 manager su 4 abbia una laurea, contro il 54% della media europea e il 68% della Francia, una condizione che non favorisce l’innovazione”, ha evidenziato Carla Collicelli , Advisor Scientifico del Censis. Tuttavia, negli ultimi anni si sono intensificati gli sforzi istituzionali a supporto della ricerca industriale e privata. “Come ad esempio la creazione del Fondo Nazionale per l’Innovazione, il Piano Disegni, ed infine il Piano Marchi a cura dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi e di Unioncamere.

Secondo l’Ocse, che ha calcolato i costi per ogni singolo paese (Education at Glance 2015. OECD Indicators), in Italia si spendono per ciascun studente che prosegue fino alla laurea magistrale 178mila dollari e 228mila dollari se consegue un dottorato. «Questi dati confermano che quando a stabilirsi all’estero è un cittadino che ha fruito del sistema scolastico nazionale, si sposta una persona che è stata destinataria di notevoli investimenti pubblici». Tra le perdite del paese di origine vanno anche inclusi i mancati introiti derivanti dal deposito e dall’utilizzo all’estero di brevetti messi a punto dai ricercatori emigrati. In realtà, come evidenza ancora la ricerca dell’Istituto di Studi Politici S. Pio V, un fattore di compensazione è costituito dagli immigrati stranieri che si sono stabiliti in Italia. In quindici anni sono aumentati da meno di 1,5 milioni a 5 milioni, inserendosi nel mercato occupazionale (2,3 milioni di occupati, 466mila disoccupati e oltre 500mila le imprese condotte da immigrati).

«L’aumento dei diplomati e laureati tra la popolazione straniera residente in Italia ha ampiamente coperto il numero degli espatriati. Nel periodo 2012-2014, a fronte di cica 60mila laureati italiani che si sono trasferiti all’estero, vi sono circa 15mila laureati italiani rimpatriati e oltre 100mila laureati in più tra gli stranieri residenti e quelli diventati nel frattempo cittadini italiani». Tuttavia i laureati stranieri restano una risorsa ancora scarsamente valorizzata. «Tenuto conto dell’impatto positivo sul sistema nazionale degli studenti internazionali, si dovrebbe essere meno diffidenti nei loro confronti e far leva sugli incentivi, sia con le borse di studio, sia con contributi per chi intende successivamente promuovere un’attività», ha sottolineato Iodice. «Inoltre bisognerebbe anche rivedere gli ostacoli non superati come l’inadeguatezza dei servizi di sostegno agli studenti, onerosità dei requisiti per la concessione e il rinnovo del permesso di soggiorno per studio». Dallo studio è merso che nell'anno accademico 2014/2015 gli stranieri iscritti alle università italiane sono stati 70.339 (il 4,3% di 1.652.592 iscritti complessivi), oltre a 10.290 iscritti all'Alta Formazione Artistica e Musicale (su 86.872 totali) e a 11.101 (dato dell'anno 2013/2014) alla formazione post-laurea (su 137.939).

Ma quali sono le conclusioni della ricerca? «La tendenza dei laureati italiani a trasferirsi all’estero dovrebbe potersi basare maggiormente su una libera scelta. Diventa perciò indispensabile la corretta comprensione delle ragioni che spingono ad emigrare, come ad esempio la mancanza di un’occupazione o di un lavoro confacente alla formazione ricevuta, non rispetto della meritocrazia, ristrette possibilità di avanzamento, forme contrattuali precarie, scarso sostengo ai progetti di ricerca, ed infine mancati collegamento tra l’università e il mondo produttivo».


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA