Politica & Istituzioni

Povertà educativa, la proposta di VITA in otto punti

Nel giorno in cui si insediava il Comitato di indirizzo del Fondo contro povertà educativa, VITA ha messo attorno a un tavolo le associazioni più impegnate sul tema, insieme a Marcello Esposito, blogger di Vita.it e consigliere del sottosegretario Nannicini. Abbiamo fatto alcune riflessioni, che affidiamo al Comitato per il suo lavoro

di Sara De Carli

Nel 2014, i minori in condizioni di povertà assoluta erano 1.045.000: significa che Italia un minore su dieci è povero. Accanto alla povertà economica, misurata in rapporto al reddito dei genitori, esiste però anche una povertà, altrettanto insidiosa ma spesso sottovalutata: l’impossibilità per un bambino di avere a disposizione quanto gli serve per apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente le sue capacità, talenti e aspirazioni.

È questo che si intende con l’espressione «povertà educativa»: le occasioni a cui un bambino non ha accesso, le possibilità che non ha e di conseguenza le capacità che non riesce a far fiorire pienamente. Dobbiamo pensare a questo quando leggiamo i dati che Save the Children di recente ha presentato, costruendo per la prima volta un indice della povertà educativa (IPE): il 48% dei minori tra 6 e 17 anni non ha letto neanche un libro, se non quelli scolastici, il 46% non ha svolto alcuna attività sportiva, il 55% non ha visitato un museo… Non è questione di mettere in mano ai più piccoli un libro in più, ma di quali opportunità di sviluppo e crescita a questi bambini e ragazze sono rimaste inaccessibili.

Per la prima volta l’Italia ha creato un Fondo per aggredire questo problema. È il Fondo contro la povertà educativa minorile, creato con la legge di Stabilità 2016, alimentato dalle fondazioni bancarie e ormai ai blocchi di partenza. È una opportunità importante, che mette sul piatto una cifra non risolutiva ma certo ragguardevole per un arco temporale di tre anni, un tempo in cui qualcosa di può capire.

La parte di terzo settore che lavora all’interno dell’ampio tema della povertà educativa minorile ovviamente guarda a questo fondo con molte aspettative. Abbiamo chiamato in redazione le principali realtà attive in questo campo e attorno allo stesso tavolo abbiamo ragionato di speranze, auspici e timori. Ecco una riflessione in otto punti, che VITA affida al Comitato di indirizzo, all’avvio dei suoi lavori.

  1. Che cosa si intende per povertà educativa? Occorre chiarire molto cosa si intende, dove si vuole andare a incidere, quali sono gli obiettivi delle azioni. Save the Children ad esempio ha messo a punto un IPE-Indice di povertà educativa, con degli indicatori che riguardano sia la sfera scolastica sia la sfera extra-scolastica. Povertà educativa indica i ragazzi che non hanno la possibilità di far fiorire il proprio potenziale, è qualcosa che va oltre il successo scolastico. Missione del fondo dovrebbe essere quella di agire non solo in termini di successo scolastico ma in termini di opportunità educative.
  2. Che confine c’è tra povertà educativa e temi come la dispersione scolastica? Povertà educativa non significa solo “scuola” ed è importante distinguere strumenti e finalità, tuttavia la scuola ha un ruolo importante nel quadro, sia perché l’unico vero fattore protettivo contro esclusione sociale è l’istruzione sia perché coinvolgere la scuola significa valorizzare le competenze acquisite fuori dalla scuola, con quanto consegue in termini di autostima e senso di appartenenza. In concreto auspichiamo che il bando non si rivolga alle scuole ma al terzo settore e tuttavia sia previsto il coinvolgimento di almeno una scuola. Il contrasto alla povertà educativa è fuori e dentro la scuola, bisogna fare un ponte di innovazione tra questi due mondi.
  3. Che confine c’è tra povertà educativa e povertà materiale? Pare rischioso avvicinarsi alla povertà materiale, perché si rischia di disperdere energie, ci sono altri strumenti. Tuttavia è necessario agire in coordinamento con gli altri progetti/interventi in corso, a cominciare dal SIA e dal FAED, creando un effetto leva.
  4. Evitare bandi a pioggia, fare monitoraggio dei progetti, orientarsi su alcuni obiettivi prioritari e fare “potenza di fuoco” su di essi. Si sottolinea come un valore l'occasione offerta dalla connotazione sperimentale del fondo: se il fondo è sperimentale deve battere strade nuove. Chiediamo al promotore uno sforzo nell’individuare quali siano gli outcome associati e quali gli obiettivi. La dimensione innovativa e sperimentale del fondo potrebbe essere quella di definire gli obiettivi e gli indicatori precisi sui risultati che si vogliono ottenere: i modelli possono essere diversi, ma convergere su obiettivi comuni.
  5. Fare valutazione di impatto. Non abbiamo bisogno di microinterventi ma di policy e l’unico modo per capire dove vale la pena spendere un euro in più è fare valutazione di impatto, per capire quali esperimenti funzionano e possano essere messi a sistema diventando politiche strutturali: è difficile ma non impossibile. Anche in questo campo esistono già esperienze. Ad esempio Fondazione Agnelli ha fatto una valutazione d’impatto sul progetto “Fuori classe” di Save the Children, mentre WeWorld varerà a settembre un benchmark, un “bollino azzurro”, per misurare l’efficacia dei suoi interventi sulla dispersione scolastica basato su 71 domande descrittive.
  6. Prevenzione o interventi riparatori? In base alle esperienze in atto, sembra più efficace concentrarsi su prevenzione, lavorare con i sedicenni significa spesso lavorare in un rapporto uno a uno e sulle singole biografie. Pensando alle politiche, diverso è concentrarsi sulla fascia 7-10 anni, curare in particolare il passaggio dalla primaria alla secondaria di primo grado.
  7. Il lavoro con le famiglie è fondamentale. Servono progetti che aumentino la competenza educativa di insegnanti e genitori, c’è disorientamento. Allo stesso tempo però è importante che una parte della misura arrivi direttamente al ragazzo e si trasformarsi in un’opportunità specifica per lui. Parlando di famiglie, si sottolinea la grossa presenza percentuale di famiglie straniere: serve curare la mediazione culturale, per gestire gruppi così eterogenei.
  8. Servono reti per dare continuità agli interventi. Occorre pensare fin dall’inizio a una modalità per cui le esperienze avviate possano sopravvivere dopo il bando. Una chiave sono le reti: non fittizie e strumentali al bando ma reali, forse la strada è coprogettare interventi di rete, così che si crei una rete reale che resti sul territorio. Diverse le esperienze in atto, dal “distretto educativo” di Exodus-DonMilani2 alle “comunità educanti” di Save the Children alla “comunità auto-educante” cui sta lavorando MissionBambini a Milano (zona 9).

All'incontro hanno partecipato Fondazione Albero della Vita, Save the Children, Fondazione Mission Bambini, Fondazione Exodus, WeWorld, Fondazione Agnelli. Quella qui presentata è una sintesi giornalistica, non una proposta congiunta delle associazioni presenti. Foto di copertina JAIME REINA/AFP/Getty Images.


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