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Dacca: tutte le imprecisioni della stampa

Dalla tendenza a parlare di Islam come di un unico blocco monolitico, al silenzio sul ruolo giocato dall’Arabia Saudita nella radicalizzazione, l’informazione sull’attacco terroristico di Dacca ha fatto emergere le inesattezze di un’informazione troppo spesso superficiale. La giornalista Paola Caridi le ha raccolte nel suo blog e noi l’abbiamo intervistata

di Ottavia Spaggiari

Potrebbe intitolarsi il “Prezzo della disinformazione”, il post-denuncia di Paola Caridi, giornalista e scrittrice, esperta di Medio Oriente, condiviso diverse migliaia di volte. Una critica all’approssimazione e alla disinformazione, con cui i media italiani hanno trattato la tragedia di Dacca. L’abbiamo intervistata per capire quali sono le imprecisioni e i non detti più clamorosi e perché, le parole sono così importanti, soprattutto quando si parla di violenza e terrorismo.

Nel suo post ha scritto che “alla radio di Stato (RadioRai), sono state ripetute una pletora di stereotipi, luoghi comuni, inesattezze e generalizzazioni”. Quali sono i casi più clamorosi?

Molto spesso quando si parla di tragedie del genere, si parla di Islam come se fosse un elemento monolitico, senza dare alcuna contestualizzazione nazionale e soprattutto senza soffermarsi sul fatto che, ad aver compiuto questi atti di violenza terribile, sono dei terroristi. Dacca è solo l’ultimo caso e il risultato di un processo lungo in cui, per anni, si è costruita una narrazione che ha offerto una rappresentazione inesatta e, in molti casi, drammaticamente negativa di interi popoli e luoghi. La cattiva rappresentazione contribuisce a rendere le persone invisibili. D’altra parte non abbiamo mai descritto i terroristi dell’IRA come estremisti cattolici ma solo come terroristi. Attribuendo a questi estremisti una connotazione religiosa si rischia di schiacciare un miliardo e mezzo di credenti musulmani su posizioni estreme appartenenti ad una minoranza criminale. Lo stereotipo è semplice e la semplificazione è necessaria e lecita, fino a quando non diventa falsità. Questa incapacità di distinguere, crea mostri e non fa altro che reificare la terza guerra mondiale a pezzi, di cui ha parlato anche Papa Francesco.

E poi c’è il problema della scelta delle notizie che si danno…

Abbiamo parlato di questa tragedia perché vi sono state molte vittime italiane, se le vittime fossero state tutte tedesche ne avremmo parlato sicuramente meno, se fossero state Bengalesi, probabilmente non ne avremmo parlato affatto. Due giorni dopo la tragedia di Dacca, a Baghdad, l’ISIS ha rivendicato un attentato in cui sono morte oltre 140 persone, di cui 25 bambini, la maggioranza di questi musulmana, eppure la notizia da noi è stata solo accennata.

Eppure non sarebbe importante dedicare più spazio agli attacchi dell’Isis in paesi come l’Iraq, proprio per smontare il sillogismo tra Islam e terrorismo e offrire un quadro più completo dei fatti?

Sarebbe fondamentale eppure non avviene. La rappresentazione del terrorismo è estremamente complessa. Il giorno prima degli attacchi di Parigi del 13 novembre scorso, l’ISIS aveva colpito Beirut, uccidendo oltre 40 persone, eppure nessuno si ricorda di quell’attacco.

Nel suo post lei ha parlato anche del ruolo dell’Arabia Saudita, un tassello importante quando si parla di radicalizzazione ma che viene molto spesso taciuto, perché?

Che questo Paese abbia giocato un ruolo fondamentale contro la democratizzazione nel mondo arabo è cosa notissima, così come lo è il fatto che abbia contribuito, anche con importanti investimenti alla radicalizzazione, eppure anche di questo si preferisce non parlare, per questioni politiche ed economiche, rimane un Paese amico. L’Arabia Saudita è un Paese in cui vi è una fortissima censura, eppure vi era stata una proposta per creare un panel invitandolo al Salone del Libro di Torino, quando gli scrittori non avrebbero mai potuto partecipare, un paradosso rappresentativo del fatto che con questo Paese si ha doppio standard. Fa parte del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, nonostante le violazioni che continuano tutt’oggi ad essere perpetrate, tanto che, proprio lunedì, Amnesty International e Human Rights Watch ne hanno chiesto la sospensione.

Il nome di Dacca è legato a un altro tragico evento: la strage del Rana Plaza, il crollo del palazzo nel quale morirono oltre mille operai impiegati in cinque fabbriche tessili costretti a lavorare in situazioni di insicurezza estrema. Nel suo post ha criticato il fatto che non ci sia stata nessuna riflessione su chi siano gli imprenditori italiani in Bangladesh, perché hanno investito nel Paese e dove siano le aziende da cui si riforniscono. Perché è importante fare questa riflessione?

Da un lato credo sia giusto non citare la strage del Rana Plaza, perché significherebbe in qualche modo tracciare una connessione diretta e infondata con le vittime di questa tragedia, rischiando addirittura di dare origine a colpevolizzazioni assolutamente fuori luogo. Per descrivere la realtà economica e sociale del Bangladesh, però citare il ruolo chiave dell’industria tessile è fondamentale. Il problema è che si tende ad una narrazione parziale e inesatta dei luoghi e delle persone. Vi sono fior fiore di esperti e studiosi di storia, economia e cultura bengalese, perché continuiamo a dare voce sempre ai soliti noti?

Foto: AFP/Getty Images


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