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Economia & Impresa sociale 

Se l’impact investing entra in Vaticano

«La Chiesa Cattolica ha nuovamente preso posizione in favore degli investimenti ad impatto sociale come strumento d’azione in linea con il magistero di Papa Francesco». L’intervento del Segretario Generale di Social Impact Agenda per l’Italia

di Sara Seganti

Si è conclusa pochi giorni fa la Seconda Conferenza Vaticana sull’Impact Investing che ha riunito a Roma per tre giorni i maggiori operatori interessati ad affrontare i problemi sociali senza rinunciare alla sostenibilità economica.

Ridurre il costo e migliorare l’accesso a servizi fondamentali come l’acqua potabile, l’educazione, la salute, l’energia permette di trasformare i più poveri dei poveri, la base della piramide, in micro consumatori attivi. Durante la conferenza si è discusso di come possa nascere un mercato economicamente sostenibile in grado di produrre un impatto sociale e ambientale positivo. Un esempio su tutti: d.light, un’impresa sociale che distribuisce energia rinnovabile per le famiglie e le imprese e sta radicalmente trasformando il modo in cui le persone usano e pagano l’energia.

C’è molto da riflettere su questa nuova visione e di certo, il coinvolgimento del Vaticano sul tema degli investimenti ad impatto sociale merita attenzione.

In primo luogo, dopo l'edizione del 2014, la Chiesa Cattolica ha nuovamente preso posizione in favore degli investimenti ad impatto sociale come strumento d’azione in linea con il magistero di Papa Francesco. Non è una mera adesione di principio, ma si tratta di un vero e proprio posizionamento nel modo di intendere la missione della Chiesa nell’affrontare i problemi sociali e ambientali.

Il coro di voci in questi giorni ha sottolineato come un approccio di questo tipo sia fondamentalmente circolare, nel senso che attiva il portatore del bisogno, senza consideralo destinatario passivo delle politiche di sviluppo. L’idea esplicitata da Jacqueline Novogtaz, fondatrice di Acumen e una delle visionarie dell’impact investing è che l’approccio top down nelle attività di sviluppo generi dipendenza.

Ma c’è di più, l’immissione di capitali privati nel sociale dovrebbe, nel migliore dei casi, aiutare a scalare l’impatto sociale prodotto, favorire la cultura dell’efficienza, della trasparenza e della misurazione dei risultati sociali.

La logica dell’impact investing presuppone che più un intervento sociale è sostenibile e più produrrà effetti su larga scala e a lungo raggio.

La dimensione valoriale alla base di questo paradigma ben si presta ad essere declinato come strumento di azione sul fronte religioso. Non a caso, in questi giorni, era presente anche la Fondazione Aga Khan, il cui fondatore è il leader spirituale dei musulmani ismailiti nel mondo.

In secondo luogo, la Chiesta Cattolica ha degli asset da mettere a valore per gli investimenti ad impatto sociale.

Il Presidente dello IOR, Jean-Baptiste de Franssu ha pubblicamente dichiarato che, nel percorso di adeguamento ai principi di trasparenza che lo IOR sta portando avanti, uno degli obiettivi è dare maggiore rilevanza all’impatto nelle scelte di investimento. Una proposta lanciata a livello globale: almeno il 20-30% degli asset delle maggiori istituzioni cattoliche in giro per il mondo vengano investiti a un minimo comune denominatore valoriale. Non è ancora chiaro se si faccia riferimento all’SRI (screening volto a limitare gli impatti negativi) oppure all’impact investing (scelta consapevole di produrre impatto sociale positivo). Probabilmente la riflessione è appena iniziata. La Chiesa Cattolica sembra aver capito che l’impact investing può rappresentare un’opportunità di migliorare l’allineamento tra l’azione economico finanziaria e la missione sociale, e certo anche evangelica, del Vaticano.

Infine, il Vaticano pensa e agisce in una prospettiva internazionale e, paradossale che sia, laica nella definizione di “social business”, come in Italia ancora non si riesce a fare.

Occorre prendere atto che ad organizzare la conferenza, insieme al Concilio Pontificio per la Giustizia e la Pace è stata anche la Catholic Relief Service, l’agenzia umanitaria internazionale della comunità cattolica statunitense. La matrice quindi della discussione era fondamentalmente anglosassone, guidata da Stati Uniti e Gran Bretagna, Paesi leader di questo nuovo mercato e tradizionalmente aperti a considerare l’impatto sociale prodotto – e misurato – come sufficiente a tutelare la missione dell’impresa sociale, a prescindere dalla sua forma giuridica o dalla distribuzione del profitto. Quando si ripensa alla discussione che per più di un anno ha tenuto la riforma della legge sull’impresa sociale bloccata nel Parlamento Italiano, per via del timore di superare il vincolo della distribuzione degli utili nella definizione di un’impresa sociale, non si può non stupirsi della libertà con cui la Conferenza Vaticana dal canto suo ha affrontato il tema.

Perché quando si guarda al mondo globalizzato e l’azione è su scala internazionale, occorre parlare un linguaggio comprensibile ai più. Non importa quindi se il capitale è a dono, o se è investito, o se è una combinazione dei due. La conclusione nelle parole di Matt Bannick di Omidyar Network, il dono e l’impact investing sono soltanto mezzi al servizio di un fine, l’impatto sociale.

Sara Seganti, Segretario Generale di Social Impact Agenda per l’Italia


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