Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Cooperazione & Relazioni internazionali

In Francia la lotta contro il jihadismo è all’anno zero

La Francia si risveglia nuovamente in preda all’incubo jihad interna. Una minaccia totalmente sottovalutata dai poteri pubblici d’oltralpe fino al 2012 e contro la quale la Francia rimane molto impreparata. “I programmi di prevenzione e di deradicalizzazione contro il jihadismo si stanno rivelando totalmente inefficaci”, sostiene Esther Benbassa, senatrice del gruppo Europe-Ecologie-Les Verts a cui il Senato francese ha affidato il coordinamento di una Missione d’informazione sulla disindottrinamento e il reinserimento degli ex jihadisti e candidati al Jihad in Francia e in Europa

di Joshua Massarenti

Senatrice, quali le sue prime reazioni all’attacco terroristico di Nizza?

Un misto di cordoglio, rabbia e rivolta. Ora, più che mai, la Francia deve rivedere la sua strategia sulla lotta al terrorismo. Lo stato di emergenza decretato dopo il Bataclan non è bastato a scongiurare la tragedia di Nizza. Mi chiedo se la proroga decretata ieri sera da Hollande di altri tre mesi basterà per fermare l’ondata di violenza terroristica che sta colpendo il nostro paese.

Lei sta coordinando una Missione d’informazione del Senato francese sui metodi di “disindottrinamento e di reinserimento” di ex jihadisti o candidati al jihad in Francia e in Europa. Ci spieghi gli obiettivi di questa missione…

L’obiettivo è quello di osservare quello che è stato fatto in Francia negli ultimi anni in tema di disindottrinamento e di reinserimento sociale deipotenziali jihadisti, paragonare le nostre azioni a quanto è stato fatto in altri paesi europei e suggerire alle autorità competenti nuove azioni e programmi da implementare. Purtroppo i nostri poteri pubblici hanno reagito molto tardivamente alle partenze di giovani candidati al jihad in Siria e in Irak. Il fenomeno risale alla metà del 2012, ma abbiamo avviato i primi programmi di prevenzione contro la radicalizzazione islamica soltanto nella primavera 2014, quando paesi come il Belgio, la Danimarca, la Germania o il Regno Unito si erano già attivati.

Con quali conseguenze?

Purtroppo manchiamo di personale adeguato per questo genere di programmi, penso ad esempo ai programmi da implementare nelle carceri, dov’è molto difficile identificare chi è radicalizzato da chi non lo è. Il pericolo più grande è amalgamare le persone, puntare il dito contro una comunità, ma qualcosa va fatto. Lo si fa attraverso dei colloqui personalizzati o collettivi, soprattutto con i giovani tentati dal jihad. Poi bisogna ragionare su che cosa significa il radicalismo in un paese come la Francia o in Europa? L’estrema destra è un fenomeno che va tenuto sotto osservazione perché può avere conseguenze devastanti nel prossimo futuro.

C’è un profilo comune che emerge tra i giovani jihadisti o candidati al jihad in Francia?

Direi di no. A sorpresa, abbiamo scoperto parecchi giovani che si sono convertiti all’Islam oppure ragazzi e ragazze che si sono radicalizzate nel mondo rurale. Quando parliamo di giovani e jihad, molti pensano ancora che il fenomeno della radicalizzazione avviene nei centri urbani e nelle loro periferie, è in parte vero, ma solo in parte. I moviti che poi spingono un giovane a partire in Siria sono molteplici, ormai lo sappiamo. Si va dai problemi familiari a quelli più disparati che colpiscono gli adolescenti disorientati o fragili, passando per il fallimento scolastico, la mancanza di prospettive nel mondo del lavoro, la piccola delinquenza, la droga, il tipo di Islam praticato in casa o la discriminazione razziale. Un discorso a parte va fatto per Internet, che certo rimane uno strumento di reclutamento importante e contro il quale le nostre politiche di prevenzione risultano ancora inadeguate, ma ce ne sono altri ben più importanti.

Quali?

Penso al carcere, ai centri sportivi o ai gruppi di amici. Sono questi i luoghi in cui nasce il desiderio di jihad, il loro potere di attrazione è molto più forte delle immagini e dei video diffusi da Daesch su internet e i social media. Del resto e non a caso abbiamo scoperto che su Internet il pericolo più grande sono i siti di incontro.

Che cosa sta facendo la Francia per contrastare questo fenomeno?

Sono state lanciate della campagne di sensibilizzazione nelle scuole per spiegare ai giovani la pericolosità dell’ideologia jihadista, ma non credo proprio che possa funzionare. Mi ricordano i programmi di lotta al tabagismo con slogan del tipo “fumare uccide!”, ma non è così che si contrasta questo genere di fenomeni. Di recente si è cercato di mettere in piedi dei programmi che associano dei psicologi, degli esperti in propaganda jihadista, ecc, individuali o collettivi, ma anche lì non sono convinto. Purtroppo continuiamo a brancolare nel buio. Quello che manca è una speranza verso il futuro che spinga i giovani ad impegnarsi in qualcosa di utile per se stessi e la società. Il fatto che la prima ondata di partenze abbia coinvolto ragazzi convinti di andare in Siria per motivi umanitari non può essere sottovalutato. Oggi più che mai urge offrire un’alternativa al jihadismo.

Foto di copertina: Martin Bureau/Getty Images


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA