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Cooperazione & Relazioni internazionali

Le relazioni pericolose tra Francia e Qatar

Dalla squadra di calcio del Paris Saint-Germain alle periferie, dagli investimenti nelle case di moda, nei media e persino nella Total, il Qatar da alcuni anni ha trovato in Francia un terreno fertile per i propri investimenti, tra l'altro defiscalizzati. Oggi qualcuno comincia a chiedersi se questa presenza indiscreta non limiti visione e azione di presidenza e esecutivo

di Marco Dotti

Basta finanziamenti stranieri alle moschee, anche se per un periodo limitato, tutto da determinare. Continua far discutere la proposta di Manuel Valls che, in una recente intervista a Le Monde, invita a «essere lucidi dinanzi alla minaccia». Le parole di Valls per molti rappresentano un passo oltre lo stallo in cui la politica francese versa da mesi. Per altri – e non sono minoranza – quelle stesse parole sono quanto di meno lucido vi sia. Anzi, sono l'ennesima prova della debolezza endemica del sistema politico francese dinanzi a una minaccia che nei piani alti della politica non sanno prendere per tale. Forse vorrebbero, ma non possono.

Valls, stando a questa linea critica, parlerebbe di moschee per non parlare d'altro. Non dice una parola sui fondi di investimenti del Qatar, per esempio. Né – e da ex responsabile degli interni dovrebbe – sulle borse di studio per i rifugiati siriani che il Qatar finanzia direttamente alla Sorbona. Riemerge così una vecchia questione che, tra il 2012 e il 2013, quando Valls era ministro degli interni, tenne testa per mesi nel dibattito: è opportuno che il Qatar, micro-Stato intergralista da sempre al centro di questioni geopolitiche complesse che vanno dal caso Al-Jazira definita "una televisione che possiede un Stato", ai finanziamenti per le cosiddette "primavere" arabe, dalla caduta di Gheddafi all'accusa di finanziare l'Isis, abbia porte aperte sugli investimenti immobiliari e persino sulla riqualificazione dei sobborghi urbani che dal 2005 sono i veri luoghi sensibili e infiammabili del Paese?

Per quanto il mainstream politico-intellettuale si attardi a leggere le ultime vicende di terrorismo e violenza in chiave religiosa e individui una possibile risposta nella maggiore o minore "moderazione" – concetti assai sfumati e fragili – dei rappresentati di una fede, il punto sul quale gli esperti da tempo concordano è che reclutamento, addestramento e radicalizzazione dei violenti avvengono oramai altrove rispetto alle moschee, con tempi rapidissimi e con modalità tali da risultare spiazzanti persino in una logica di egemonizzazione degli imam più o meno moderati. Oramai la questione è come egemonizzare il sociale, non una rete di moschee.

Oggi la partita del reclutamento – piaccia o no – si gioca infatti nel sociale, tra le seconde e terze generazioni, nei luoghi di un disagio profondo che stentiamo a comprendere. La spirale francese è a questo punto evidente: da un lato per combattere il terreno di coltura del terrorismo, in nome di valori universalistici si parla di integrazione e si chiedono maggiori investimenti magari proprio sulle banlieues, dall'altro si accetta che questi investimenti arrivino da Paesi da tempo bersaglio della critica proprio per i loro finanziamenti aperti o presunti a una forma di neowahhabbismo particolarmente ostile a quei valori.

È il caso del Qatar. Come leggere, oggi, gli investimenti del micro-Stato del Golfo Persico proprio nei sobborghi parigini?

Lasciando perdere i più noti – dall'acquisto nel 2012 della squadra di calcio della capitale, il Paris Saint-Germain alle quote in Total e nel gruppo media Lagardelle – è proprio sulle periferie che si concentrano le critiche. Critiche che già tre anni or sono, in un libro edito da Fayard, Le vilain petit Qatar (sottotitolo: Cet ami qui nous veut du mal, questo amico che ci vuole male), i giornalisti Nicolas Beau e Jacques-Marie Bourget avevano evidenziato. Perché il Qatar dovrebbe avere interesse a investire, con un suo specifico fondo, più di 100milioni di euro nella "riqualificazione" delle banlieues? Perché dovrebbe finanziare persino borse di studio, corsi di formazione e scuole? Filantropia? Non scherziamo. Compensazione per gli investimenti immobiliari nel cuore di Parigi? Non sembra credibile.

Va detto che a chiedere l'intervento dell'Emiro fu Aneld, l'Association nationale des élus locaux pour la diversité – il parlamentino degli amministratori di terza generazione – che, in sostanza, di fronte alle critiche rispose che gli uomini d'affari qatarioti sono socialmente lungimiranti e arrivò a parlare di "Piano Marshall per le periferie".

Da sinistra, le critiche furono dure e pesanti anche perché a dare il benestare all'accordo, che come contropartita aveva una forte defiscalizzazione degli investimenti immobiliari qatarioti in Francia, fu inizialmente Nicholas Sarkozy. Poi Hollande mise il sigillo su tutto. L'Aneld – associazione nata sull'onda della vittoria di Obama nel 2008, che raggruppava esponenti politici locali di seconda generazione – oggi tace ma il problema dell'infiltrazione dei fondi qatarioti rimane. Quei fondi hanno penetrato strati che vanno ben oltre quelli superficiali della finanza e dei conti economici, questo è il problema. Restano le parole del presidente dell'Aneld, Kamel Hamza, pronunciate nel 2012, come segno di inadeguatezza e di incapacità di leggere i tempi, se non peggio: «il tasso di disoccupazione giovanile in certe zone urbane sensibili raggiunge il 40%. Non capisco perché il Qatar non ci dovrebbe aiutare». Il Qatar, affermano oggi molti di quegli stessi amministratori locali che ne invocavano l'aiuto, si è in sostanza comprato le banlieues. Con quali conseguenze, però, nessuno sembra volerlo dire. O capire.

Immagine in copertina e nel testo di Christophe Ena/AFP/Getty Images


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