Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Cooperazione & Relazioni internazionali

Rio 2016, le atlete saudite non cambieranno le regole del gioco nel loro paese

Nel 2012 la mezzofondista Sarah Attar e la judoka Wodjan Ali Seraj Abdulrahim Shahrkhani nel Judo, hanno ottenuto il “permesso”, dal regno ultraconservatore dell’Arabia Saudita di partecipare alle Olimpiadi di Londra. Alle Olimpiadi di Rio 2016 le atlete sono 4 ma in Aurabia Saudita rimane il divieto per le donne di praticare sport

di Monica Straniero

A Londra 2012 per la prima volta due atlete saudite, la mezzofondista Sarah Attar e la judoka Wodjan Ali Seraj Abdulrahim Shahrkhani nel Judo, hanno ottenuto il “permesso”, dal regno ultraconservatore dell’Arabia Saudita di partecipare alle Olimpiadi. Fino a cinque anni prima sembrava impossibile che le donne saudite potessero prendere parte alle gare olimpiche.

Alle Olimpiadi di Rio 2016 le atlete saudite chiamate a rappresentare l’Arabia Saudita sono diventate quattro. Oltre a Sarah Al Attar, si sono aggiunte Wujud Fahmi nel Judo, la fiorettista Lubna Al Omair e la centometrista Cariman Abu Al Jadail. Tuttavia, il governo saudita ha concesso di gareggiare alle atlete donne solo a patto di indossare il hijab e nel pieno rispetto delle leggi islamiche.

“La possibilità di competere alle Olimpiadi per un ristretto gruppo di atlete non risolve il problema del divieto di praticare sport per le donne in Arabia Saudita”, ha sottolineato Minky Worden, direttore iniziative globali di Human Rights Watch. “Serve un cambiamento di politica per riconoscere a tutte le ragazze il diritto di svolgere un’attività sportiva”.

In un rapporto del 2012 dal titolo “Passi del diavolo, Human Rights Watch descrive la difficile condizione delle donne che vogliono fare sport in Arabia Saudita. Nella monarchia petrolifera ultraconservatrice, esiste infatti la convinzione che lo sport possa condurre le donne e le ragazze sulla strada dell’immoralità. Quando tra il 2009 e il 2010 il governo ha chiuso le palestre private femminili, le donne saudite hanno organizzato una campagna di protesta con lo slogan, "Lasciala ingrassare."

Intanto il 6 agosto, la principessa Reema bint Bandar, è stata nominata Sottosegretario per lo sport femminile presso l'Autorità Generale per lo Sport del Regno e ha promesso in un’intervista che farà di tutto per affrontare e combattere la discriminazione nello sport nei confronti delle donne saudite. Una strada tutta in salita, visti i tanti ostacoli che di fatto impediscono alle donne saudite di avvicinarsi allo sport. È proibito accedere alle professioni legate all’ambiente sportivo, allenarsi o giocare all’aperto, partecipare a giochi di squadra, accedere allo stadio e ad altre infrastrutture sportive. Come se non bastasse, alle ragazze saudite iscritte alle scuole pubbliche non è ancora consentito prendere parte alle ore di educazione fisica e ginnastica, nonostante il divieto di fare sport negli istituti femminili sia stato eliminato nel 2013.

La discriminazione contro le donne e le ragazze nello sport è solo una parte di una realtà fatta di sistematiche e gravi violazioni dei diritti delle donne in Arabia Saudita. Secondo un nuovo rapporto di Human Rights Watch, rilasciato lo scorso 17 luglio, il sistema di tutela maschile dell'Arabia Saudita resta il principale ostacolo per l’emancipazione femminile e il riconoscimento dei diritti delle donne di quel paese, nonostante i timidi progressi registrati negli ultimi dieci anni. Le donne adulte sono ancora costrette ad ottenere il permesso da un tutore di sesso maschile, di solito un padre o un marito, in alcuni casi un fratello o anche un figlio, per viaggiare o sposarsi, per lavorare, per depositare una somma in banca, per affittare un appartamento, e perfino per uscire dal carcere. Tutto questo per le donne saudite dura dalla nascita fino alla morte.

Human Rights Watch ha chiesto più volte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, di sospendere l’Arabia Saudita dal Consiglio dei diritti umani, di cui fa parte dal 2014, fino a quando non attuerà le raccomandazioni accettate nel febbraio 2009 di porre fine al sistema di tutela maschile e di avviare riforme urgenti in tema di diritti umani.

Nel frattempo le donne saudite hanno deciso di rivendicare il proprio diritto di prendere decisioni in modo indipendente, lanciando su Twitter l'hashtag #TogetherToEndMaleGuardianship. L’iniziativa sostenuta da Human Rights Watch (HRW) ha rivolto anche un appello agli atleti olimpici affinché facciano loro parte per sensibilizzare l'opinione pubblica sulle leggi inique a cui sono sottoposte le donne in Arabia Saudita.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA