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Democrazia: il dialogo sopravviverà allo psicodramma?

La democrazia, spiegava Winston Churchill in uno dei suoi memorabili aforismi, «è la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre forme che sono state fino ad ora sperimentate». Possiamo rinunciare alla pratica concreta della democrazia, al voto, alla scelta a tutto vantaggio di un governo di tecnici solo perché siamo soggetti a errori, disponiamo di sempre meno informazioni e sempre più emozioni e ci scopriamo esseri "limitatamente razionali"? Uno studio di Gabriele Giacomini ci aiuta a fare chiarezza

di Marco Dotti

La scelta razionale

A partire dagli anni ’40 del secolo scorso, quando l’economista Oskar Morgenstern e il matematico e informatico John von Neumann, sistematizzarono l'idea che le scelte umane e il comportamento che ne deriva seguissero un criterio di razionalità, l'antica disputa sull'uomo come animale razionale fece un balzo in avanti. Razionalità, calata in uno scenario trategicamente complesso, divenne così sinonimo di coerenza e di equilibrio. Ne conseguì l’affinamento di un modello – quello della scelta razionale – che ebbe, e tuttora ha, grande influenza sulle scienze sociali, economiche e politiche.

D'altronde, quello di razionalità, come ricorda il filosofo norvegese Jon Elster, «è, assieme a quello di giustizia sociale, uno dei concetti normativi fondamentali impiegati nelle scienze sociali. Intuitivamente, essere razionali significa agire nel modo migliore possibile rispetto a un fine, o sfruttare al meglio le risorse a propria disposizione».

Il giogo della perfezione

In politica, la teoria della scelta razionale, ricorda Gabriele Giacomini nel suo recente Psicodemocrazia. Quanto l'irrazionalità condiziona il discorso pubblico (Mimesis, 2016), consiste in due assunti principali: 1) gli elettori «si impegnano in una serie di complessi calcoli logici e razionali al fine di scegliere il politico o il partito che presenta posizioni programmatiche più vicine alla loro»; 2) i politici, da parte loro, sono chiamati a mettere a punto e proporre “piattaforme elettorali che possano attrarre il maggior numero di voti possibile».

La teoria della scelta razionale è tutt'oggi una «pietra angolare» delle scienze sociali, economiche e poilitiche. Al cuore di questa pietra angolare c'è una precisa antropologia: quella dell'homo œconomicus. L'homo rationalis delle scienze sociali e persino quelo della Teoria dei giochi coincide, in sostanza, con l’homo œconomicus dell'economia classica: calcolatore, massimizza i profitti e riduce al minimo le perdite. Conosce e sa conoscere. Ma – e qui sta il problema – questo modello astratto può convivere con l'incertezza?. Il soggetto politico studiato da questa prospettiva diventa una sorta di comprimario dell'homo œconomicus: possiede capacità di calcolo perfetta, è sempre consapevole delle sue scelte, ordina le sue preferenza rispettando gli assunti logici di transitività e completezza. Non esita, pianifica e sceglie.

Una volta trasposta nella scienza della politica, spiega Giacomini «la definizione di elettore come massimizzatore del proprio interesse implica che ci si limita a considerare gli argomenti che hanno un impatto diretto sulla condizione economica dell’elettore. Sono esclusi, quindi, i valori non materiali come la libertà, il rispetto di sé e degli altri, il prestigio, l’onore, la solidarietà, il benessere altrui. Su questo assunto si basa il pocket book voting, ovvero l’idea che l’elettore scelga le amministrazioni e i governi in base al punto di vista strettamente economico e reddituale». È il rational choice paradigm, proposto in maniera sistematica da Anthony Dows in un libro del 1957, sintomaticamente titolato An economic theory of democracy.

Senza scelta: il processo irrazionale

L’idea di fondo di Dows era che, in politica come in economia, il soggetto agisca per trarre la massima utilità dalle proprie azioni e dalle situazioni che gli propongono una scelta. Anche se in possesso di informazioni parziali, secondo Dows l’attore politico decide sempre in maniera razionale. Eppure, come ricorda Angelo Panebianco nella premessa al lavoro di Giacomini, i più disincatantati o, semplicemente, i più accorti fra gli indagatori del campo sociale tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, da Weber a Schumpeter, avevano compreso che l'idealtipo del cittadino informato, razionale, che sceglie freddamente e calcola, soppesandole, le conseguenze delle proprie scelte, semplicemente non esiste.

Che fare, allora? Rinunciare all'idea di fondo e sul legame fra scelta, razionalità e democrazia calare un triste sipario da operetta? Concluderne che la democrazia è, tutt'al più, una commedia rispetto alle tragedie dei totalitarismi? (Di fatto, proprio partendo dagli assunti di von Neumann, questa fu la tesi critica del primo romanzo di P. K. Dick, Solar lottery, disamina in nuce della teoria del minimax e degli infiniti modi per scombussolare, letteralmente, la scelta e persino il gioco della sorte).

Lunghi e tortuosi – e Giacomini li illustra con precisione – sono stati i tentativi di correggere, emendare o, quanto meno, affermare modelli deboli della teoria razionale: da H. A. Simon – che osservò, di contro alla "razionalità olimpica", come l'uomo possieda una razionalità limitata e faccia ricorso a "euristiche", ovvero a scorciatoie cognitive per predere decisioni – a Bobbio, da Sartori a Raymon Aron. Fino a Daniel Kahneman, lo psicologo Premio Nobel per l'Economia nel 2002, che ha dimostrato come gli individui, e dunque gli attori politici, presentino un tipo di ragionamento caratterizzato dall’interazione fra due diversi sistemi: il primo, automatico, rapido, impulsivo, incontrollato, spontaneo, inconsapevole, associativo; il secondo, riflessivo, controllato, meditato, deduttivo, lento, consapevole, basato su meccanismi seriali e regole di inferenza logiche.

Nel lungo percorso dell'uomo per dirsi, essere o, semplicemente, rappresentarsi come razionale, ingabbiando o escludendo dal proprio campo visivo ciò che non lo è, appare qualcosa che Giacomini, sulla scia proprio dello psicologo israeliano Kahneman chiama "processo di derazionalizzazione". Ecco allora che «il processo di derazionalizzazione dell’idea di attore politico si concretizza così nell’azione autonoma e trasversale del sistema di pensiero impulsivo».

L'uomo è anche – ma non solo – un animale razionale. Quest' "anche" fa la differenza. La democrazia, si potrebbe azzardare, non fallisce proprio quando assume nelle sue premesse la costitutiva fallibilità dell'uomo. Se Kierkegaard poteva affermare che il "come" della verità è la verità nella sua concretezza, potremmo avanzare l'ipotesi che nel "come" della democrazia, rispetto alla debolezza razionale dell'uomo, stia la concretezza del processo democratico.

Fare i conti con l'incertezza

Democrazia, spiegava Winston Churchill in uno dei suoi memorabili aforismi, «è la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre forme che sono state fino ad ora sperimentate». Possiamo rinunciare alla pratica concreta della democrazia, al voto, alla scelta solo perché siamo soggetti a errori, disponiamo di sempre meno informazioni e sempre più emozioni e siamo esseri "limitatamente razionali" come ci insegnano, oramai da un ventennio, le scienze cognitive applicate alla sfera sociale?

Le passioni calde, le emozioni, in sostanza tutto ciò che per i teorici freddi sta prima della scelta e non compromette ma tutt'al più determina l'economia della scelta, sono oggi proiettate in primo piano. E la scelta scompare, in ragione di una tecnocrazia che tratta il cittadino/elettore in termini paternalistici, ossia infantilizzandolo e isterizzandone le pulsioni, anziché favorire un dialogo con questa parte (apparentemente) oscura del processo decisionale.

Finisce allora che, ad essere messa in scacco, è la nozione stessa di democrazia a tutto vantaggio della temibile tecnocrazia, ossia un governo tecnico composto da mico élites senza delega. L’evidenza empirica, un certo pessimismo antropologico suffragato però dalle scienze cognitive, potrebbero farci infatti concludere che la democrazia è impossibile e che è necessario sostituirla proprio con la tecnocrazia. Ma la tecnocrazia – sogno antico, che come distopia rimonta alla Repubblica di Platone -,ricorda Giacomini, è una pseudo-soluzione al problema della nostra razionalità limitata.

I tecnici, essendo uomini, come tutti gli uomini sono fallibili, limitatamente razionali e, nonostante le loro illusioni di pianificazione, devono fare i conti con l'incertezza, l'imponderabilie e le loro passioni. Come i giudici, di cui parlavano Holmes e Olivecrona in un loro eccesso di realismo, sono talvolta soggetti più al mal di pancia del mattino che al codice, così i tecnici non sono immuni dalla loro comune appartenenza all'umano. E ai rischi che questo comporta.

Imperfezioni democratiche

Come antidoto inevitabilmente precario al costante processo di derazionalizzazione, Giacomini invita a ragionare su una una democrazia dialogica imperfetta, nella quale la posta in gioco è quella di accrescere un po’ il tasso di razionalità delle decisioni, sapendo che non si raggiungerà mai un equilibrio perfetto.

Un regime di democrazia, osserva l'Autore, non è un ottimo in sé, ma un sistema preferibile, giustificabile e giustificato «non solo perché, dal punto di vista normativo, favorisce la rotazione del potere, aumenta per tutti i cittadini la possibilità di dare voce alle proprie esigenze e promuove l’esistenza di dinamiche di confronto ragionato fra gli individui, ma anche perché trova riscontro nei risultati degli studi cognitivi e sperimentali sul ragionamento collettivo degli attori politici, mostrandosi almeno in parte praticabile sul piano concreto».

La visione di democrazia che emerge dal confronto con il fenomeno della derazionalizzazione, però, «non può trascurare i rischi e le difficoltà che il regime democratico può incontrare di fronte a individui caratterizzati da una razionalità limitata e da dinamiche cognitive impulsive, emotive e automatiche. Questo è infatti il sostrato cognitivo su cui si basano fenomeni della politica democratica contemporanea come l’attivazione delle predisposizioni latenti, l’identificazione di partito, la personalizzazione della politica e l’agenda-setting».

In politica, in sostanza, ben altri elementi oltre alla ragione hanno sempre più centralità. Soprattutto oggi. Sono la passione, la vocazione, l’impulsività, le emozioni. Tutti questi elementi, osserva Giacomini, «connotano la sfera politica, e sono chiaramente correlati al fatto che, a fare da sostrato alla dimensione dialogica e argomentativa, sono mobilitate energie fisiche, economiche e mentali che servono a costruire e a mantenere in vita i soggetti politici che partecipano al dibattito democratico, oltre alle condizioni di pluralismo e di conflittualità che lo alimentano».

La politica fa appello ad altri fatti oltre che alla ragione, spesso in contrasto con essa: la passione, l’impulsività, le emozioni. Ma questi fattori, conclude l'autore, «non negano il valore normativo per una democrazia del dialogo ragionato e di decisioni efficaci e il più possibile razionali, ma indicano che una realizzazione politica dell’ideale democratico dialogico, seppur praticabile, non può essere completamente pervasiva e perfetta, bensì parziale e limitata. Se, quindi, la valutazione e la decisione ragionata e dialogica hanno un ruolo importante nella giustificazione della democrazia, si tratta di un ruolo limitato; per questo possiamo parlare di democrazia dialogica imperfetta».

Libera perché imperfetta: una proposta civica

Per democrazia dialogica imperfetta, l’autore intende una democrazia in cui «la validità delle regole e dei principi di condotta devono essere prodotti attraverso una procedura di scelta che mira alla ricerca del consenso razionale degli agenti coinvolti, ricerca che tuttavia si può realizzare solo in maniera limitata, parziale ed imperfetta in quanto deve porsi in relazione ad altri fattori di tipo impulsivo ed emotivo».

Il modello di democrazia dialogica imperfetta, in definitiva, «riconosce il principio dialogico e le sue potenzialità sul piano pratico, senza però aspettarsi dalla politica che assolva a compiti irrealistici come quello di adottare sempre azioni politiche quale esito di decisioni informate, coerenti e perfettamente razionali. Mentre l’ideale tecnocratico ed epistemico richiede un elevato standard valutativo e decisionale, una concezione della democrazia dialogica imperfetta non presuppone né implica che tutte le decisioni democratiche debbano essere perfettamente razionali. L’approccio ricalibra le richieste che vengono fatte alla ragione dei cittadini, mettendo per così dire le decisioni più alla loro portata».

La decisione corretta, secondo questa concezione, non consiste nel realizzare pienamente standard che sono estranei alle caratteristiche cognitive e ai bisogni degli individui. Essa consiste invece nel fatto che le interazioni fra i cittadini sono regolate da norme che possono ottenere di volta in volta il loro consenso, laddove gli standard non richiedono la perfezione ma sono alla portata della limitata ragione umana.

Secondo l'autore, se la democrazia esige l’argomentazione, la cultura dell’argomentazione è alimentata e rafforzata dalle istituzioni e dalle pratiche democratiche ordinarie come le elezioni, la competizione tra alcuni partiti, una stampa il più possibile libera. Tuttavia, conclude Giacomini, «le situazioni dialogiche non possono essere isolate da tutte le altre azioni di tipo impulsivo ed emotivo che i cittadini intraprendono nella loro attività politica e che ricoprono un ruolo per la decisione pubblica che non può essere rimosso. Il ruolo della razionalità è dunque centrale per giustificare la democrazia come regime politico ed è, in un certo senso, praticabile, ma le molteplici implicazioni del fenomeno della derazionalizzazione suggeriscono che è possibile una sua realizzazione soltanto imperfetta».

Il libro

Gabriele Giacomini, Psicodemocrazia. Quanto l’irrazionalità condiziona il discorso pubblico, Mimesis edizioni, Milano 2016, pagine 206, euro 15,60

«Viviamo in una democrazia dove la passione e il sentimento, l’istinto e la paura vengono evocati, sollecitati, utilizzati per la costruzione del consenso. dalle predisposizioni latenti all’agendasetting, dall’identificazione di partito al condizionamento dei media e delle televisioni, dalla centralità dell’immagine del leader al ricorrente utilizzo di euristiche e bias, sono tanti i fenomeni emotivi ed irrazionali che hanno un ruolo rilevante nell’influenzare le decisioni in democrazia».


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