Welfare & Lavoro

Consonno, la città vuota

Si terrà a Consonno il campionato mondiale di nascondino. Ma che cos'è Consonno? Città fantasma, Las Vegas della Brianza, è il simbolo dello dell'abbandono. Ma è anche un luogo che si è impresso nell'immaginario collettivo. Ecco la sua storia. Storia di esemplare sradicamento

di Marco Dotti

«Qui il giorno 4 maggio 1958, S. S. Paolo VI, allora Arcivescovo di Milano, durante una visita pastorale soggiornò e fraternizzò fra gli abitanti, impartendo benedizioni ai presenti, fra l’entusiasmo della popolazione». La targa, apposta il 4 maggio 1976 sulla chiesetta di San Maurizio racchiude tutta la storia di Consonno. Il 4 maggio 1958, quando Giovanni Battista Montini, da due anni arcivescovo di Milano, arriva da queste parti, Brianza lecchese, tutto deve ancora succedere. Nessuno, nemmeno lui, immagina che quell’entusiasmo e quella popolazione verranno spazzati via, con il paese e tutto il resto.

Sopravvive solo quella chiesetta, sulle cui pareti, diciotto anni dopo, verrà apposta la targa in marmo a ricordo della visita, quando tutto sarà già irrimediabilmente successo. Ma cosa è successo veramente? Andiamo con ordine, in questa storia di esemplare sradicamento.

Uno strano conte

È invece l’8 gennaio 1962, un lunedì, patrono del giorno San Severino, quando Mario Bagno – il “conte” Mario Bagno, come ama farsi chiamare da tutti, nemici compresi – acquista l’Immobiliare Consonno Brianza. È l’inizio di un sogno o di un incubo, dipende dai punti di vista. Un piccolo borgo nel cuore della Brianza, ottocento metri sul livello del mare, incastonato tra il lago e i monti, con centosettanta ettari di terreno e boschi, case e cascine, una chiesa, un’osteria e il tipico negozio che vende ogni cosa di cui si può aver bisogno da queste parti. Un’economia di fatica, certo, che dà però i suoi frutti: castagne, porri, sedani. Si vive così, forse meglio, certamente non peggio che altrove, ma si vive. Non erano cambiate molto le cose, da quando Stendhal, passando di qua, annotava che questo lembo d’Italia era senz’altro tra i più affascinanti, per la «stravaganza» con la quale la natura aveva mischiato «la calma dei fiumi, la moltitudine dei laghi, il mormorio delle acque e il verde dei prati».

C’è tutto, a Consonno, passato nel 1928 da comune autonomo a frazione di Olginate. Un panorama mozzafiato, per pochi abitanti, ma anche a pochi chilometri da Milano, Lugano e Varese. È un’ottima posizione per chi ci vive, anche troppo appetibile per chi è in cerca di affari. E il Grande Ufficiale Mario Bagno, Conte di Valle dell’Olmo – perché in realtà è così che ama farsi chiamare – se ne accorge al volo. Nato a Vercelli il 24 febbraio del 1901, con gli affari e il boom economico di quegli anni, Bagno ha fatto fortuna e non ha la minima intenzione di fermarsi. Vede Consonno e se ne innamora. Perché a Consonno c’è tutto, tranne un piccolo particolare: mancano i certificati di proprietà. O meglio, esistono ma non sono delle famiglie che abitano quelle case da generazioni. Tutto è in mano all’Immobiliare Consonno Brianza delle famiglie Verga e Anghileri. È a loro che quell’8 gennaio del 1962 il conte Bagno versa i ventidue milioni e mezzo di lire che gli permettono di entrare in possesso di tutto. Non una grossa somma, per entrare in possesso di un intero paese. Più o meno l’equivalente di una decina di Giulietta Sprint, prodotte dall’Alfa Romeo, le auto più amate dal conte.

Nel 1992, il quasi centenario Mario Bagno ricorderà: «Un geometra mi dice: “Commendatore, c’è un paese in vendita, la cosa forse può interessarla”. Io mi metto a ridere: “Un paese addirittura… e che me ne faccio?”». Bagno va a vedere, dice che non gli piace, che forse ripasserà. O forse no. Alla fine ripassa e compra tutto. Compresi i destini delle sessanta persone che ci abitano. Le sposterà come pedine, da una casa all’altra, da una cascina secolare a un prefabbricato in lamiera e cartone e infine le abbandonerà a se stesse, senza nemmeno più il loro borgo o il panorama da contemplare.

Venticinque anni prima della sospetta e tardiva dichiarazione di modestia registrata sulle pagine della stampa nazionale, parlando alla Radiotelevisione svizzera il conte si era mostrato ben più spavaldo, dichiarando di aver capito subito il «potenziale» dell’area, al punto da lanciarsi in un progetto, anzi in una miriade di progetti: realizzare un circuito automobilistico «tra i più belli d’Europa», uno zoo, campi da calcio, tennis, minigolf e «un ristorante popolare con orchestrine per attirare il pubblico». Nel 1962, le discoteche di grandi dimensioni non erano tante. E non solo in Italia, dove prevalevano balere e club. Lo stesso si poteva dire per il gioco che, fatti salvi i casinò, si esercitava quasi sempre in bische o retrobottega clandestini.

Alla fine, stretto l’accordo, Consonno gli deve essere piaciuto molto. Sei anni dopo aver preso il controllo dell’Immobiliare, sulla strada che nel frattempo ha fatto costruire, il conte fa piazzare cartelli con scritte che vanno da “A Consonno il cielo è più azzurro” a “Consonno è il paese più piccolo ma più bello del mondo”. Quei cartelli sono ancora lì, mettono i brividi. Non c’è più vita, dentro. Solo qualche flipper scassato, divani dove nemmeno i topi si nascondono più, tavoli e sedie morse dalla ruggine. Eppure tutto sta lì, a indicare una città fantasma e una modernità che è scivolata via con la stessa rapidità con la quale era arrivata.

La nostra Las Vegas

Se Las Vegas era fiorita ai margini del deserto – pensò il conte Bagno – in Brianza sarà tutto più semplice. L’apertura del primo casinò nella città americana, vecchia oasi e snodo di scambi ferroviari era d’altronde storia recente. Sedici anni appena separavano infatti la firma che permetteva a Bagno di mettere le mani sull’Immobiliare Consonno Brianza, da quel 26 dicembre 1946, quando con il denaro della East Coast Bugsy Siegel inaugurò il primo di una lunga serie di casinò, nel Flamingo Hotel. Ma se dietro Siegel c’era la mafia, dietro il Grande Ufficiale Mario Bagno, Conte di Valle dell’Olmo – forse – c’era solo il Grande Ufficiale Mario Bagno, Conte di Valle dell’Olmo. Con tutti i suoi titoli, le sue patacche, i suoi sogni di grandezza. Quei sogni e quelle patacche, nel 1965, gli bastarono per dare il via ai lavori. Senza necessità di chiedere permessi e senza l’intenzione di chiederli, le ruspe della ditta Bagno presero a spianare le colline. L’esplosivo fece il resto. Alcuni residenti, non avvertiti dei lavori, scoprirono che la loro casa stava per essere demolita solo quando le ruspe presero a sfondare i muri del salotto.

Anche perché il conte Bagno ha una nuova idea ogni giorno e, spesso, l’idea di oggi non coincide con quella di ieri o di domani. Tra progetti di zoo e luna park, hotel e circuiti automobilistici, casinò e balere, in un continuo andirivieni di distruzioni, costruzioni e ricostruzioni, trascorrono tre anni. Tre anni, ma alla fine, mentre a Milano aveva ben altro di cui occuparsi – correva l’anno 1968 – il progetto della Las Vegas della Brianza trova finalmente termine.

Dell’antico borgo, con i suoi boschi, l’osteria e il negozio non rimaneva più nulla. Si salvò solo la Chiesa, ma vuota. Gli abitanti di Consonno furono trasferiti in una sorta di new town arrangiata che cingeva il nuovo borgo. Nuovo si fa per dire. Nuovo, solo perché dell’antico non restava più nulla, nemmeno la collina di fronte, che il conte fece radere al suolo affinché si potesse vedere il Resegone, che con i suoi mille e ottocento settantacinque metri domina le Prealpi lombarde.

In compenso, si difende il conte, ci sono le sale da gioco, un hotel, templi e colonne doriche, una sfinge egizia, pagode, cannoni puntati sulla città confinante, torri e una porta medievale all’ingresso, un centro commerciale e persino un vero e proprio minareto.

Ma la gente? Non i vecchi abitanti, gente rustica, abituata alla fatica, che fa a pugni di suo con la modernità. Ma la gente di mondo, quella del boom e del divertimento il sabato sera, sembra dargli ragione. Accorre curiosa, attratta dalle serate danzanti e dalla possibilità di giocare e magari vincere una piccola fortuna. Qui vengono proprio tutti, a giocare o a cantare, a ballare o a mettersi in mostra negli anni dei primi divi. Pippo Baudo presenta le sue serate, con Rita Pavone e i Dik Dik, Milva e Celentano, Mina e Johnny Dorelli e poi i calciatori, i politici a caccia di voti e i discografici, le starlette nostrane pronte a arrotondare con qualche servizio fuori busta, gli illusionisti e i maghi venuti da ogni dove. A Consonno ci si sposava, si organizzavano addii al celibato o veri e propri galà di nozze. Agli occhi dei brianzoli e dei milanesi che arrivano in massa, il Grand Hotel Plaza di Consonno pare proprio Las Vegas. Al conte pare l’anticamera di Sanremo, festival e casino compresi. Tutto è sospeso e tutto è irreale. Ma questa è la vetrina ideale per conoscere e farsi conoscere. Il sociologo Edgar Morin, proprio in quegli anni scriveva che i divi sono creature ibride, per metà reali e per metà immaginarie.

Consonno pare proprio essere il loro terreno ideale. Chi canta qui lo fa perché è famoso, dice il conte. E se è famoso, allora, non può che venire qui a cantare. La gente nel frattempo gioca e punta i suoi soldi al tavolo verde. La scritta al neon “Play Time” fa capolino sulla grande sala di Consonno, una lavanderia “copre” il night club e le puntate alle slot machine, a poker o black jack portano buoni incassi. Tutto al riparo da sguardi indiscreti, mentre a Milano l’azzardo è sempre stato sinonimo di malavita, qui fa rima con divertimento. Ma le cose stanno cambiando, sia a Milano che qui.

La città gioca d'azzardo

Nel 1975, esce nei cinema La città gioca d’azzardo. È un film di Sergio Martino, con Luc Merenda, star del poliziottesco, Corrado Pani e Enrico Maria Salerno. La città gioca d’azzardo è il classico film d’azione, ben costruito, ma ingenuo e persino banale nelle sue dinamiche. Eppure, come accade sempre, anche l’ingenuità ha i suoi meriti. Talvolta svela più di quanto non fosse nelle sue intenzioni o nelle sue possibilità.

Il film, il cui titolo in inglese viene tradotto Gambling City, con la sua sociologia ingenua è una cartina di tornasole molto profonda e attendibile dei mutamenti in atto nel mondo del gioco d’azzardo. In controluce si possono cogliere molti dei processi che segneranno a fondo la nostra società, dalla criminalità sempre più organizzata, al patto “grigio” tra istituzioni, contro-istituzioni e tessuto economico in quella sorta di triade composta da speculazione edilizia, azzardo e traffico delle sostanze stupefacenti che proprio allora stanno invadendo la Lombardia e Milano, passando dai salotti ai night, dai night alle bische e dalle bische alla strada. «Milano è come Chicago», si scriveva sui giornali della notte e della sera. Chicago, la città dei flipper e della malavita. Ma anche i flipper stavano scomparendo, come le lucciole di cui parlava Pier Paolo Pasolini, in quel vuoto di potere che avrebbe trascinato con sé tutto il Paese. Dietro l’azzardo, in quegli anni, si celava una visione del mondo capace di non presentarsi come tale, ma come tale in grado di agire sotto pelle e sotto traccia.

Alla metà degli anni Settanta, nella sola Milano già si contavano trentamila tossicodipendenti. Il consumo giornaliero di eroina cominciava a portare nelle casse di questo strano mondo circa due miliardi di lire ogni giorno. Settecento miliardi l’anno a cui si aggiungeva il giro d’affari dell’edilizia e quello, difficile da contabilizzare, di estorsione e azzardo. Ma le tensioni sociali indirizzano altrove l’attenzione di tutti. Mentre la città si rifà il trucco, le periferie diventano un’urbe di cemento. Così le chiamava, nel 1956, il giornalista Giovanni Russo.

È l’Italia dei poveri. Poveri che sognano di diventare ricchi e nuovi ricchi che, nel giro di qualche decennio, si ritroveranno inesorabilmente poveri. E i paesi? E i borghi? E le decine di Consonno spare ovunque, attorno a Milano? Chi resta è forse troppo legato a un mondo fatto di fatica e lavoro che nessuno sembra più disposto a farsene carico. I giovani partono o attendono qualcosa dalla sorte. Finché anche loro torneranno a testa bassa. Ma non troveranno più niente.

L’incipit del Piatto piange, romanzo pubblicato nel 1962 dallo scrittore Piero Chiara è una lucida istantanea su questa dinamica sociale. Scrive Chiara: «Si giocava d’azzardo in quegli anni, come si era sempre giocato, con accanimento e passione; perché non c’era, né c’era mai stato altro modo per poter sfogare senza pericolo, l’avidità di danaro, il dispetto verso gli altri e, per i giovani, l’esuberanza dell’età e la voglia di vivere. Nei paesi la vita è sotto cenere. Per vivere come si vorrebbe da giovani ci vuole danaro; e di danaro ne corre poco. Allora si gioca per moltiplicarlo e si finisce col fare del gioco un fine, una manìa nella quale si stempera la noia dei pomeriggi e delle sere. Non ci si accorge che a due passi, fuori dalle finestre, c’è il lago e la campagna. Si sta legati ai tavoli a denti stretti e neppure si pensa che lo studio, o un mestiere qualsiasi, potrebbero rompere quell’inceppo che si maledice e si adora».

Verso spazi senza luogo

Ma ciò che al territorio togli, prima o poi il territorio se lo riprende. Nell’ottobre del 1976, una frana pose fine ai sogni del conte. La collina brutalmente cementificata dieci anni prima, cedette, bloccando ogni accesso alla cittadella. Dodici mesi dopo, questo territorio “fieramente” democristiano vide nascere una nuova maggioranza social-comunista, impegnata a dar battaglia al conte dentro e fuori il consiglio comunale. Fu una doppia sanzione simbolica o poco più. Perché il danno era fatto e perché già da qualche anno l’urbanistica ludica e visionaria di Mario Bagno era giunta al suo fine corsa, soppiantata da altre luci, da altri giochi – si inaugurava l’era delle bische – e altre paillettes.

Il conte morì il 22 ottobre 1995. Il non luogo della Las Vegas nella Brianza lecchese si trasformava in un luogo senza storia, senza presente, senza futuro.

Alla preistoria del consumo incarnata da Consonno, si sono via via sostituite le cattedrali del consumo, così come allo spettacolo che raddoppia il reale si è sostituito uno «spettacolo sullo spettacolo» La Consonno del conte Bagno era un miraggio in una vita fatta di oasi e deserti. Oggi, non ci sono né oasi, né miraggi. C’è solo il deserto. A Consonno, infatti, non abita più nessuno. O meglio, un paio di superstiti e qualche gatto ancora ci sono. Ma sopravvivono Nessuno “pratica” più questo spazio. Ed è proprio la “pratica” a fare di uno spazio un luogo.

Restano comunque il minareto, le sale da gioco e da ballo, la sfinge e i cannoni come fossili inerti in uno spazio puntiforme cintato da una rete di ferro. Qui i ragazzi vengono per fare i loro rave e ogni tanto capita che qualche creativo ci installi il set di una pubblicità di successo. “Location”, la chiamano. E suona come una beffa, su tanto silenzio e dolore.

Oggi divertimento e azzardo sono altrove. Anche la Las Vegas di Bugsy Siegel, favoleggiata dal conte Mario Bagno, non è più la stessa. Anche Las Vegas è in crisi. L’azzardo di massa ha svuotato di fascino i vecchi santuari dell’azzardo. Il gioco d’azzardo è ovunque e quindi in nessun luogo. È nello spazio di ogni bar, da qui a Milano. Cammini e ti ci imbatti e talvolta cadi, dinanzi a una slot, in una sala scommesse, ingannato quell’inceppo che al tempo stesso si maledice e si adora.

Ne è passato di tempo, che viene quasi la nostalgia se pensi al conte Bagno. Ma le storie le puoi rovesciare finché vuoi. Una sola cosa non cambia: al variare delle forme della disperazione, la disperazione rimane la stessa.


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