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Così si possono ricostruire i borghi

Parla Moreno Landrini, tecnico in imprese edili specializzate in recuperi e restauri, oggi sindaco di Spello e protagonista della ricostruzione di San Giovanni, un piccolo paese del Monte Subasio, raso al suolo dal sisma del 1997. «Le risorse devono essere gestite da chi ama quei territori e quelle comunità. Da chi è figlio di quelle pietre»

di Lorenzo Maria Alvaro

Piccoli paesi di montagna. Comunità di poche manciate di persone. Case di pietra, ritoccate con innesti di cemento nei muri e nei tetti negli anni ’60 e ’70. La lunga lista di piccoli villaggi che si susseguono sulla SS4, tra cui Accumoli e Amatrice, sono molto simili a quelli della via del Subasio, la strada che da Nocera Umbra fino a Spello porta ad Assisi passando per la montagna e incontrando centri, paesi, piccoli nuclei. Nel 1997 qui era successo quello che oggi è successo poco distante da qui, sugli Appennini umbri, marchigiani e abruzzesi. Solo data e orario della scossa hanno permesso di evitare la strage che oggi porta il conto dei morti oltre le 250 persone. Quella di questi giorni è stato un sisma senza preavviso, che ha colpito di notte e durante le vacanze estive, con ogni casa aperta e vissuta. Allora era settembre, il terremoto aveva dato avvisaglie e la scossa più potente era arrivata in tarda mattinata.

Di fronte a questi paesi che oggi sono per lo più cumuli di pietre, travi e coppi, l’impressione è che non ci sia nulla da fare. Eppure l’Umbria della zona del Subasio, colpita allo stesso modo, oggi è tornata com’era, anzi più sicura e più bella di prima. Uno degli esempi più eccellenti di questa ricostruzione è uno dei castelli del Monte Subasio, San Giovanni,

a metà strada tra Spello e Assisi, sulla montagna. Quando fu colpito dal sisma aveva una sola abitante e il suo destino sembrava segnato. Oggi è tornato all’antico splendore medioevale. Dietro questo recupero c’è Moreno Landrini, tecnico in imprese edili specializzate in recuperi e restauri e oggi sindaco Spello.


Da dove si parte per ricostruire, una volta finita la prima emergenza?
In effetti è molto simile la situazione di oggi con quella di allora. Parliamo di edilizia povera, non consolidata nel tempo con le nuove tecniche. Case mai migliorate dal punto di vista sismico. Per ripartire il punto fondamentale della ricostruzione è l’efficienza e l’efficacia della macchina politica e burocratica. Ancora prima dei soldi. La ricostruzione deve essere basata sul cuore e sulla scienza. Deve essere fatta dalle persone che hanno sempre vissuto le zone colpite e con le migliori tecnologie disponibile. La cosa da evitare sono soluzioni calate dall’alto o decentralizzate nella gestione. Poi serve la certezza della destinazione delle risorse. Questo è l’abc. È ciò che ha caratterizzato la ricostruzione dell’Umbria.

Perché è importante il cuore?
È fondamentale. La ricostruzione è chiaro che deve poter attingere da risorse che arrivano anche dall’alto. Però queste risorse devono essere spese dai soggetti stessi coinvolti nel sisma. Perché sono interessati a ricostruire la propria identità. Che non deve obbligatoriamente sfociare nella riedificazione di ciò che era prima prima. Ma che avrà naturalmente quel rispetto e quella sensibilità che altrimenti non sarebbe possibile.

Questa formula nel concreto di San Giovanni, il suo paese natale che lei ha ricostruito, come si declina?
Sono due gli aperti essenziali dell’esperienza di San Giovanni. Uno è che il finanziamento viene gestito, associandoli, dai singoli proprietari. Una forma aggregata che si chiamava UMI, unità minima di intervento. Un consorzio dei proprietari insomma. I soldi poi venivano elargiti e pagati solo se le aziende dimostravano di essere in regola. Il famoso Durc, documento unico di regolarità contributiva, inventato dalla allora presidente della Regione Lorenzetti.

Eppure non sempre è andata così. Spesso le ricostruzioni hanno fallito…
In effetti molto dipende dalle persone che vivono un territorio e dall’amor proprio che hanno. Perché l’approccio nelle ricostruzioni è cambiato nei vari territori coplipit? La geografia in fondo è destino. I popoli dell’appennino, in Abruzzo, Marche e Umbria sono molto simili. Per dirla all’umbra, hanno la capoccia dura. Ricostruiranno tutto, com’era e dov’era. Ci vorranno 10 o 15 anni. Ma lo faranno, come lo abbiamo fatto noi. Come avrete notato nessuno vuole lasciare i propri paesi. Era successo anche qui. L’unica preoccupazione che ho è lo spopolamento, che qui era un po’ meno presente. La perdita di vite umane da questo punto di vista potrà incidere.

Ricostruire dov’era e com’era ma nel segno della sicurezza. La ricostruzione dell’Umbria a tenuto di fonte al nuovo terremoto…
Certo. Parliamo di cittadine adiacenti alla zona colpita che non hanno subito grossi danni. Nocera Umbra, che fu l’Amatrice di allora, non ha subito danni, come anche i comuni del Subisso. I danni di Norcia e Catselluccio sono limitati e non strutturali. Possiamo dire che la ricostruzione umbra è stata un successo. Detto questo il rischio zero non esiste. Sarebbe stupido dirlo e anche pensarlo…

In queste ore si fa un grande parlare di Piani nazionali per la messa in sicurezza. Secondo lei può avere senso?
L’emotività del momento fa dire di tutto. Questo poi è il terremoto più mediatico che abbiamo mai vissuto. Una specificità che ha aspetti positivi ma anche risvolti grotteschi, specie in relazione all’informazione. Dobbiamo innanzitutto smettere di costruire in zone a rischio, di qualunque tipo. Dove non si può costruire non si deve costruire. Oggi invece si fanno opere di messa in sicurezza che lasciano il tempo che trovano. Questo è il primo capitolo. Perché se continuiamo a costruire dove c’è rischio non se ne esce più. Poi si può lavorare sull’esistente con incentivi e formule varie ed eventuali. Una cosa è certa: si fa molta più economia con un graduale miglioramento del nostro patrimonio edilizio che facendo grandi opere dall’utilità dubbia. Il miglioramento dei territori è economia, e sguardo al futuro.


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