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Dobbiamo odiare la Silicon Valley?

C’è solo un modo, spiega il sociologo Evgeny Morozov, per rendere davvero incisiva la nostra critica all'ideologia della Silicon Valley: affrontare il problema economico e finanziario, ma ricordando il ruolo sempre più importante che i “signori del silicio” rivestono nell’architettura del sociale

di Marco Dotti

Il punto non è che le promesse della Silicon Valley siano false o fuorvianti, anche se spesso lo sono, ma, spiega Evgeny Morozov, «che quelle promesse possono essere comprese solo se inquadrate in un contesto più ampio». E questo contesto è dato – né più, né meno – dalla «scomparsa dello Stato sociale» e dalle danze che si sono aperte sulle sue macerie.

Tra due rive

Il ricercatore bielorusso non è mai stato tenero con i signori del silicio. Ma oggi che la sua voce canta un po' meno fuori dal coro – perché il coro delle critiche si sta ingrossando, giorno dopo giorno, su più livelli: dalla pubblicistica colta all'ingegneria sociale più raffinata – l'attenzione attorno al tema è insperabilmente cresciuta. Diventa allora interessante seguire Morozov, magari partendo dal suo ultimo libro (Silicon Valley: i signori del silicio, traduzione di Fabio Chiusi, Codice edizioni, pagine 151, euro 16), per avviare un dibattito franco e informato sugli effetti e i dilemmi tragici delle nuove tecnologie sull'architettura sociale. Semplice? Non proprio.

I cittadini, che non sono ancora del tutto consapevoli di questi dilemmi, «potrebbero accorgersi che la vera scelta oggi non è tra Stato e mercato, ma tra politica e non-politica». Che cosa significa? Significa che la scelta, è tra un sistema «privo di qualsiasi immaginazione istituzionale e politica – in cui un non ben precisato mix di hacker, imprenditori e venture capitalists è la risposta preconfezionata ad ogni problema sociale – da una parte,e dall’altra un sistema in cui non sono ancora state messe in discussione soluzioni espressamente politiche su chi – tra cittadini, aziende e Stato – debba possedere cosa e a quali condizioni».

L’entusiastica narrazione della rivoluzione tecnologica ha rubato la scena a quella, dalle tinte ben più fosche, di una rivoluzione politica ed economica che ha ben poco a che vedere con la tecnologia

Evgeny Morozov

Filantropi di ventura

Spiega Morozov: se è vero che «la Silicon Valley ha un futuro solo all’interno del capitalismo contemporaneo, il capitalismo contemporaneo ha un futuro solo all’interno della Silicon Valley». Brutti, sporchi e cattivi, dunque. Ma necessari?

Il mondo là fuori, puntualizza Morozov, può anche considerare la Silicon Valley «un bastione del più spietato capitalismo» ma nel cerchio caldo del loro mondo – il mondo che, oggi, più di ogni altro sembra "contare" – gli imprenditori tecnologici «amano dipingersi come sostenitori della solidarietà, dell’autonomia e della collaborazione».

Non c'è "venture capitalist" che non ami indossare la maschera del "filantropo di ventura". E proprio qui sta il problema. Spiega Morozov: «Questi “filantropi di ventura” credono di essere i veri difensori dei deboli e dei poveri – loro, non i politici subdoli o le inutili organizzazioni non governative –, che distribuiscono a chi si trova ai margini della società i benefici materiali prodotti dai tanto vituperati mercati».

Il fatto che la Silicon Valley si definisca il più grande portatore di uguaglianza al mondo la mette così al riparo dalle naturali riserve che si dovrebbero mantenere. Uguaglianza, lotta alla discriminazione, potere dolce e pervasivo legato, quasi sempre, a una dimensione filantropica ricacciano sotto il tappeto la polvere di ogni critica. Ma è proprio la critica che, oggi più che mai, dobbiamo saper esercitare. Il net-entusiasmo ha fatto il suo tempo, ma i net-apocalittici non sono profeti meno falsi o migliori.

Piattaforme onnivore

Gran parte delle sfide della Silicon Valley, oggi, si giocano sul tema delle piattaforme. Qui la tematica dello Stato sociale – e di quel che ne resta – diventa cruciale.

Una piattaforma in genere è come un parassita: si nutre delle relazioni sociali ed economiche esistenti; non produce niente, ma riarrangia parti e pezzi sviluppati da altri. Il mondo del capitalismo delle piattaforme, nonostante l’inebriante retorica che lo ammanta, non è poi così diverso dal suo predecessore. L’unica cosa che è cambiata è chi intasca i soldi»

Evgeny Morozov

Anche perché – questo il duro giudizio di Morozov – «una piattaforma in genere è come un parassita: si nutre delle relazioni sociali ed economiche esistenti; non produce niente, ma riarrangia parti e pezzi sviluppati da altri. Il mondo del capitalismo delle piattaforme, nonostante l’inebriante retorica che lo ammanta, non è poi così diverso dal suo predecessore. L’unica cosa che è cambiata è chi intasca i soldi»

Morozov sarà venerdì a Camogli, al Festival della comunicazione di Camogli ( ore 11, in piazza Ido Battistoni), per un incontro dal titolo La piattaforma del capitalismo arriverà a divorare se stesso? e, il giorno dopo, sarà ospite al Festivaletteratura 2016 di Mantova, per un incontro sui rischi della Condivisione totale, dove affronterà i i lati oscuri del dilagante diffondersi delle piattaforme "social" da Facebook a Uber, da Amazon a Airbnb.

La verità non detta, tuttavia, è che «molte delle piattaforme oggi più in voga sono veri e propri monopoli che cavalcano le economie di rete deri­vanti dal gestire un servizio il cui valore aumenta all’au­mentare delle persone che lo usano. Per questo possono concentrare così tanto potere; Amazon è nel mezzo di una costante guerra con gli editori, ma non c’è un’altra Amazon a cui potersi rivolgere».

Costruire l'alternativa è la sfida che ci attende. Fuori da falsi orizzonti.

In copertina: Simulatore di realtà virtuale, Venezia 3 settembre 2016 (Andreas Rentz/Getty Images)


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