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Periferie, dal futuro probabile a quello possibile

L'antropologo e docente di “Media, culture & Communication” della New York University: «Dobbiamo favorire ciò che può accadere, non attendere passivamente ciò che, grazie alla nostra inerzia, è probabile che accada. La periferia va sottratta a fatalismo e vittimismo. Anche perché, in molti casi, è da ciò che chiamiamo periferia che arrivano sguardi concretamente innovativi sul futuro»

di Arjun Appadurai

Nel cuore delle nostre città o ai loro margini, nel pieno delle loro periferie e persino nelle periferie delle periferie,

dobbiamo essere mediatori, catalizzatori e promotori di un’etica della possibilità che sappia andare oltre l’etica della probabilità. Dobbiamo favorire ciò che può accadere, non attendere passivamente ciò che, grazie alla nostra inerzia, è probabile che accada. Le cose possono cambiare, se ci impegniamo per il meglio. Questa è non solo innovazione, ma è l’innovazione di cui abbiamo bisogno.

Un’innovazione che sa far convivere tanti “centri”, uno accanto all’altro.

Dobbiamo favorire ciò che può accadere, non attendere passivamente ciò che, grazie alla nostra inerzia, è probabile che accada

Dobbiamo perciò farci promotori di un impegno morale fondato sulla convinzione che una politica genuinamente democratica non puoò basarsi sulla valanga di numeri circa la popolazione, la povertà, il profitto e il saccheggio che minaccia di soffocare ogni ottimismo. Perché se ci mettiamo a livello della strada, delle cose, allora la vita e il mondo ci danno un’infinità di risposte e ci offrono molte pratiche possibili.

La periferia va sottratta a fatalismo e vittimismo. Anche perché, in molti casi, è da ciò che chiamiamo periferia che arrivano sguardi concretamente innovativi sul futuro

La periferia va sottratta a fatalismo e vittimismo. Anche perché, in molti casi, è da ciò che chiamiamo periferia che arrivano sguardi concretamente innovativi sul futuro. Occorre dunque incrementare l’etica della possibilità, che può offrire una base più estesa per il miglioramento della qualità della vita sul pianeta e accogliere una pluralità di visioni della vita buona che ci vengono dalla voce spesso inascoltata della realtà. Lo sviluppo possibile di queste dimensioni ci riporta però alla questione cruciale: l’unica caratteristica universale degli esseri umani è la loro differenza. Una differenza che è pluralità di visioni — non c’è un centro, al contrario tutti siamo periferia.


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Questa pluralità di visioni, oggi, ci arriva dalle zone più disparate del mondo, dalle periferie delle nostre megacittà. Luoghi dove il futuro si vive, si pratica, si esercita. I presunti “centri” ci parlano di un futuro pianificato da algoritmi e tecnologie. Le periferie ci indicano un’altra strada: quella del futuro come fatto culturale. Bisogna «fare il futuro» ispirandosi a un’etica e cercando di praticarla attraverso una «politica della possibilità» e un «cosmopolitismo dal basso».

l’unica caratteristica universale degli esseri umani è la loro differenza. Una differenza che è pluralità di visioni. Non c’è un centro, al contrario tutti siamo periferia

Bisogna fare futuro avendo capacità di aspirare, ovvero di nutrire e lasciar nutrire aspirazioni. Non solo individuali, ma comuni. Spesso, sono proprio gli abitanti delle periferie a fare la città. Come? Vivendola, praticandola, lavorando fianco a fianco in un’ibridazione tra vissuti che è ricchezza, cultura. Futuro.


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