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La poesia per capire la migrazione

“Blu della cancellazione” è il titolo dell’ultima raccolta di poesie di Maria Attanasio, poetessa e scrittrice siciliana molto apprezzata in Italia e all’estero. Storia, giustizia sociale e migranti sono centrali nella sua poetica.

di Cristina Barbetta

«Il tema dei migranti mi tocca moltissimo. La storia e la giustizia sociale sono per me essenziali. Così come la bellezza della parola».
A parlare è Maria Attanasio, poetessa e scrittrice siciliana, nata nel 1943 a Caltagirone, dove tuttora vive e lavora. Suoi testi poetici e narrativi sono apparsi su importanti riviste e antologie nazionali e internazionali, e sono stati tradotti in inglese, spagnolo, francese, arabo e giapponese.
L’abbiamo incontrata in Sicilia, a Castel di Tusa, all'Art Hotel Atelier di Antonio Presti, in occasione della presentazione del suo ultimo libro, la raccolta di poesie: “Blu della cancellazione”, (122 pagine, edizioni La Vita Felice, Milano).

«Il blu è un colore plurale, con una pluralità di significati e rappresentazioni. Normalmente è un colore che ha un respiro infinito, che ci riporta a qualcosa di celestiale, come il blu del cielo e del mare», dice Maria Attanasio.
«Il blu a cui penso con maggiore gioia è quello delle ceramiche di Sidi Bou Said, in Tunisia, che è il blu della bellezza. Ma c’è anche un altro blu, il blu della negazione, della cancellazione e della distruzione».

Il titolo del libro è una metafora. «La prima, la più evidente e drammatica, è quella dei migranti che attraversano il mare, che rischiano la vita e muoiono, per cui il blu della libertà e della bellezza si trasforma nel blu della negazione, della morte, una morte non per caso ma per ingiustizia», dice Maria Attanasio.
«Gli uomini liberi amano il mare», scrisse Baudelaire, «ma gli uomini poveri muoiono nel mare», osserva la poetessa siciliana.

In senso autobiografico il “Blu della cancellazione” è legato alla vita che passa. Nel libro l’autrice mette insieme elementi autobiografici traslati attraverso la metafora e il riferimento storico. «Per me storia e biografia sono estremamente interferenti, non possono essere separate».
C’è il tema della guerra e dei bambini vittime innocenti della guerra che non hanno scelto, il rapporto con la madre e l'infanzia «di bambina degli anni ‘50, un’infanzia chiusa, costretta, isolata, ai limiti della sopravvivenza».

Gorgo della parola infanzia/di litanie e case bombardate/sola, compressa,/nel cerchio di una stanza,/ha fame e freddo/e non conosce il mare.

Maria Attanasio, da “Blu della cancellazione”.

«La poesia di Maria Attanasio è una poesia visuale, che si sente e si vede», dice il regista Claudio Collovà durante la presentazione del libro. È una poesia scarna, concisa, fatta di metafore, con l'uso della terza persona (“ho un rapporto difficile con la mia autobiografia”), pochi aggettivi, attenzione ai dettagli.
All’interno di “Blu della cancellazione c’è una poesia narrativa: “Il suo nome era Tarek di Helalia”, la storia di un migrante che muore lavorando in Sicilia, morto ammazzato dal caldo insopportabile delle serre e dalla fatica.

Il suo nome era Tarek di Helalia,/ma lo chiamavano Tano il tunisino/- tutto il giorno a zappare a concimare-/diceva sempre sì,/anche ad agosto dopo mezzogiorno,/quando/tra concimi e diserbanti/cominciava ad avere giramenti./Mort’ammazzato sempre nella serra./Cipolle e melanzane grosse come teste di bambini.

Maria Attanasio, da “Blu della cancellazione”.

Commenta la poetessa Antonella Anedda nella prefazione: «Tra le poesie più belle del libro c’è Il suo nome era Tarek di Helalia…, vero e proprio requiem laico per i tanti clandestini sfruttati e morti senza nome, senza più terra, accompagnati solo dall’ipocrisia di chi dice di averli fatti lavorare per compassione ed è invece attento solo al proprio profitto. La poesia è civile perché sceglie di dare voce a chi non l’ha mai avuta e non l’avrà, e perché la civiltà è impensabile senza uno sguardo che riconosca davvero chi abbiamo di fronte come una persona con un nome e una patria».

Maria Attanasio è anche scrittrice di prosa, romanzi e racconti, in cui è centrale il tema della giustizia sociale. Ha iniziato a occuparsi della questione dei minori stranieri non accompagnati che arrivavano in Sicilia, già a partire dagli anni 2006-2007, quando il problema non era emerso e non era ancora un fatto centrale come ora. «Erano pochi i ragazzini che arrivavano, ma comunque arrivavano in Sicilia ed era un fatto di cui non parlava nessuno», spiega Maria Attanasio.

Fu Goffredo Fofi a chiederle di fare un intervento a un convegno a Napoli su questo tema, ispirandosi al racconto di De Amicis : “Dagli Appennini alle Ande”. Maria Attanasio decide di fare una riscrittura del libro di De Amicis, e pubblica un racconto lungo o romanzo breve intitolato “Dall’Atlante agli Appennini” (2008, Orecchio Acerbo), attualizzando il protagonista, che nel racconto di De Amicis si chiama Marcuccio e nel suo diventa Youssef.

«Per scriverlo sono andata in una comunità di minori che venivano dal Nord Africa. La comunità era nella mia città, Caltagirone», dice Maria Attanasio. Erano minori stranieri non accompagnati, che partivano da soli, ragazzini dai 12 ai 17 anni, che aspettavano spesso tre o quattro mesi perché il giudice affidasse loro un tutor.
«Non parlava nessuno di questo fenomeno, ma esisteva, e questi bambini erano collocati in comunità di accoglienza, in aperta campagna, dove li tenevano il più a lungo possibile per ottenere i finanziamenti. Non era una prigione ma era come se lo fosse. Gli davano ogni giorno pochi soldi e loro li mettevano da parte per mandarli alle loro mamme. A volte fuggivano, a volte venivano costretti a fuggire. Questo libro l’ho scritto interrogando questi ragazzi, che mi hanno raccontato le loro storie, gli attraversamenti del mare, le loro barche rovesciate sulle rive».

Che percezione c’è dei migranti in Sicilia, terra di sbarco?
«Spesso c’è paura, che deriva da ignoranza. Noi non sappiamo niente di queste persone, è come se nascessero nel momento in cui arrivano in Italia. Non sappiamo niente del loro modo di vestire, di percepire il mondo, di guardare le cose. Il razzismo deriva da ignoranza. Noi pensiamo che una persona del Marocco sia uguale a una degli Emirati Arabi, ma non è cosi.
C’è molta ignoranza, che può essere vinta dalla conoscenza, dal rapporto diretto con i migranti, che spesso è possibile avere in Sicilia».

Storie di resistenza
«Ho sempre scritto storie di resistenza. La storia è piena di gesti e di persone che hanno detto di no, e per questo la storia le occulta. Così è la storia di Tarek. Sono storie sotterrate dalla grande storia che mi piace recuperare e raccontare».

L’ultimo romanzo “Il condominio di via della notte”, è del 2013. «Un’eccezione alla mia scrittura: normalmente scrivo romanzi storici». Questo è invece un romanzo distopico, alla Orwell, cioè un romanzo che è un’utopia negativa. Parla di una storia presente proiettata in un futuro distopico. «È un libro di forte denuncia sociale, sulla diversità che viene rigettata. Volevo raccontare questo tempo attraverso la metafora di una città chiamata Nordia. Il mio editore mi chiese un racconto sul diverso, sui migranti. Io ho fatto un romanzo sull’altro, e l’altro è anche il tuo condomino. Il concetto di altro non è solo un concetto geografico, è un concetto culturale, psicologico. L’altro è il migrante, ma è anche chi abita al sud o al nord, è anche il condomino che arriva in una nuova comunità. L’altro è anche tuo fratello».

Foto di apertura: Halery Hache/AFP/Getty Images


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