Attivismo civico & Terzo settore

Se Renzi stacca la spina alle slot machine

Il presidente del Consiglio ha annunciato di voler togliere le slot machine dai locali pubblici. L'opinione pubblica reagisce con entusiasmo, ma come si è arrivato a tanto?

di Maurizio Fiasco

Via le slot machine

Il 5 settembre il presidente del Consiglio ha annunciato a Vita che “sul gioco d’azzardo stiamo per mettere a punto una misura per togliere le slot dalle tabaccherie ed esercizi commerciali”. E ancora: “Il meccanismo del gioco affida al caso la possibilità di farcela; lavorare sulla prevenzione significa invece mettere in campo una cultura opposta a quella dell’azzardo. E questo faremo”. Vediamone le implicazioni di una simile direttiva. A cominciare dall’uso delle parole. Matteo Renzi ha impiegato il lessico naturale – gioco d’azzardo – per riferirsi all’attività da rimuovere dagli esercizi pubblici. Ma quell’espressione non si ritrova in nessun documento ufficiale, testo di legge o atto normativo che abbia autorizzato le 470mila slot machine di prima e di seconda generazione.

Infatti, quelle postazioni sono indicate mediante circonlocuzioni piuttosto curiose: apparecchi da intrattenimento, videogiochi a gettone, videolotterie. Valga per tutte, la definizione introdotta con la Finanziaria 2008: «insieme all’elemento aleatorio sono presenti anche elementi di abilità, che consentono sempre al giocatore la possibilità di scegliere, successivamente all’avvio della partita la propria strategia, selezionando appositamente le opzioni di gara ritenute più favorevoli, tra quelle proposte dal gioco».

Per rimuovere il divieto di gioco d’azzardo si è infatti dovuto riscrivere in parte l’articolo 100 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e codificare che il risultato “premiale” delle macchine automatiche “a soldi” non dipende dal caso, e dunque da ciò che connota l’azzardo, perché il giocatore può definire le personali strategie e con la propria bravura puntare al risultato appagante. Ma perché quel che altrove è indicato senza mezzi termini “gioco d’azzardo”, in Italia è etichettato come intrattenimento con abilità?

Ripristino della legalità

Nel corpus dei codici (penale, civile, amministrativo) il lemma “gioco d’azzardo” ricorre solo nel diritto penale (all’articolo 718 e seguenti). E dunque rispettando l’ordinamento italiano non lo si può autorizzare. La soglia invalicabile cade qualora il gioco con denaro, per denaro e a fini di lucro preveda che l’esito sia determinato dall’abilità. Le slot machine sono state perciò surrettiziamente istituzionalizzate quali strumenti ludici, come se gli avventori che vi s’intrattengono mettessero alla prova l’abilità “fisica, mentale o strategica”.

Lo si è fatto per garantire le quantità e le modalità, tecnologiche e organizzative, di un mercato dapprima “deviante” e poi istituzionalizzato: in denaro contabilizza oltre 88 miliardi di euro (più un altro 20 per cento di “nero” secondo le stime) e in tempo sociale di vita assomma a oltre 70 milioni di giornate “attive” (un numero che è pari a un terzo di quello dei soggiorni estivi degli italiani).

Ecco perché se dagli impegni verbali il governo passerà ai fatti, si avrà in primo luogo un ripristino della legalità. O meglio, un ritorno a quel trattamento della questione dell’azzardo che aveva rappresentato una costante dello Stato unitario dalla fine dell’Ottocento all’ultimo decennio del Novecento: contenere drasticamente la dissipazione di denaro, mediante poche deroghe di legge al divieto generale. In pratica, ci si limitava ai quattro casinò (posti ai confini dello Stato e peraltro autorizzati prima dell’avvento della Repubblica), a una trentina d’ippodromi e cinodromi, ai giochi (lenti e ritualizzati) con pronostico (Totocalcio, Totip), alle lotterie periodiche e alle estrazioni del lotto il sabato.

Così, dal 1887 (anno di promulgazione del testo unico di polizia) alla fine del Novecento è stato fondato un Monopolio pubblico sul mercato non concorrenziale dei giochi, che aveva il compito di regolare e contenere i comportamenti di azzardo, considerati comunque disvalore sociale.
Dal 1996 al 2002, di deroga in deroga, dapprima con le misure per conseguire i parametri di Maastricht, poi per garantire un flusso costante di denaro all’erario, vi si è invece collocata una leva di politica fiscale decidendo dall’alto nuove modalità, grazie all’impiego di tecnologie elettroniche.

Ma dal 2003 a oggi quello stesso Stato che pure ha privatizzato il suo patrimonio industriale, bancario e assicurativo è tornato all’interventismo creando una “economia dei giochi”, sottratta a ogni forma di concorrenza e penalizzazione. Come? Garantendo per legge margini certi a un business che via via si è dilatato, fino a rappresentare una quota superiore al 10 per cento dei consumi privati. Nel 2015 la cifra annua di impieghi nella macchina dell’azzardo ha infatti superato gli 88 miliardi, mentre il totale dei consumi delle famiglie ammonta a 850 miliardi.

E così, gli esiti paradossali di una politica aziendale statalista, invece di una politica pubblica sul gioco d’azzardo, sono sotto gli occhi degli osservatori disinteressati e competenti: un cumulo di patologie sociali, economiche, etiche, psicologiche, cliniche. E un freno alla fuoriuscita dalla recessione.q

Questo articolo è apparso su Lavoce.info


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