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Andrea Riccardi: «la città secondo Papa Francesco»

«Periferie» è la parola chiave per capire tutto il pontificato di Papa Francesco. Ma lui non propone progetti, bensì processi: andare, uscire, radicarsi in questi luoghi che sono il vero cuore delle città. Andrea Riccardi ne parla sul numero di Vita dedicato alle periferie e oggi al Festival Filosofia.

di Sara De Carli

C’è una parola che ritorna nei discorsi e nei pensieri di Papa Francesco, fin da quel suo «mi hanno preso alla fine del mondo» con cui la sera del 13 marzo 2013 si era presentato, affacciandosi sulla folla gremita in Piazza San Pietro: «periferie».

Periferie è la «chiave ermeneutica di Francesco», la strada per capire davvero la realtà di oggi, liberi da ideologie e astrattismi. Ne è convinto Andrea Riccardi, ordinario di Storia Contemporanea e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, che al tema ha dedicato un volumetto: Periferie. Crisi e novità per la Chiesa (Jaca Book). Oggi pomeriggio Riccardi sarà a Modena, per il Festival Filosofia, dove terrà la lectio magistralis “Costruire la pace”.


Professore, lei parla addirittura di una “teologia della città” di Papa Bergoglio e individua nelle periferie la “linea di fondo” del suo intero pontificato. Cosa significa e soprattutto cosa ne deriva?
Papa Bergoglio ha portato l’attenzione sulle periferie e sull’andare nelle periferie – geografiche ed esistenziali – già prima di essere eletto, nei suoi interventi alle riunioni fra cardinali. Io credo che Papa Bergoglio sia stato eletto proprio con un discorso sulle periferie. Lui non è un uomo che ha girato il mondo, ma ha vissuto con intensità la sua città, Buenos Aires, una tipica megalopoli dell’era globale: lì ha scoperto il dramma delle periferie e il fatto che la città globale diventi sempre più una città di periferici e di periferie. Lui ha avuto l’intuizione di uscire, di andare nelle periferie e fare centro nelle periferie: non di una Chiesa che si insedia nel centro e dal centro vuole influenzare la società, ma una Chiesa che celebra l’eucaristia, vive la comunione, vive la solidarietà facendo centro nelle periferie. Questa è certamente un’intuizione evangelica ed ecclesiale, ma ha un valore umanistico, culturale e politico, tant’è che poi Renzo Piano ci ha detto che dobbiamo riscostruire le nostre città a partire dal rammendo delle periferie. La “periferia” è una chiave di lettura privilegiata del nostro tempo, che è anzi "il" tempo delle periferie.

Se si ripercorre la storia del cristianesimo dal punto di vista dell’attenzione della Chiesa per le periferie, si scopre come non sia qualcosa che ha inventato Papa Francesco. Perché allora in questo momento storico essa diventa così attuale? E qual è allora la novità specifica portata da questo Papa?
Il Papa coniuga un antico sentire e una nuova percezione. Il cristianesimo nelle sue stagioni migliori e di rinnovamento si è sempre collocato in periferia, ad esempio la Subiaco di Benedetto rispetto a Roma; però Francesco parla oggi ed è ovvio che porti la specificità dell’oggi. Quale? Noi nel 2007 abbiamo vissuto una svolta nella globalizzazione, silenziosa ma impattante: la rivoluzione dei confini e delle misure del vivere umano. Nel 2007 la popolazione delle città ha superato quella delle campagne, è fatto epocale, è la prima volta nella storia. Il problema è “quale città”? La città europea? Siena, Perugia, Spoleto, la piazza la chiesa il municipio, in cui ricchi e poveri si incrociano? O una città che non ha più questo modello di comunità, una città “mega” e quindi una città di periferie? La seconda. Allora dobbiamo interrogarci tutti su cosa fare. Noi non possiamo più vivere e agire, anche in politica, come se la Roma di oggi fosse la Roma degli anni Settanta, quando le periferie erano povere ma avevano reti e presenze: oggi le periferie sono abitate da grandi solitudini. Uomini e donne oggi sono soli nelle periferie, ma l’uomo non vive solo e quindi sempre più spesso si sviluppano legami e aggregazioni altri rispetto a quelli di ieri. Non è un caso che i vuoti delle periferie siano riempiti dalle mafie: l’anno scorso i funerali di Casamonica a Don Bosco hanno avuto valore simbolico fortissimo in questo senso.

Credo che Papa Bergoglio sia stato eletto proprio con un discorso sulle periferie. Lui non è un uomo che ha girato il mondo, ma ha vissuto con intensità la sua città, Buenos Aires, una tipica megalopoli dell’era globale: lì ha scoperto il dramma delle periferie e il fatto che la città globale diventi sempre più una città di periferici e di periferie. Così ha avuto l’intuizione di uscire, di andare nelle periferie e fare centro nelle periferie

Andrea Riccardi

Quindi il nostro è "il" tempo delle periferie perché è ineludibile ricucire questa solitudine, ricucire legami tra centro e periferie?
È il tempo delle periferie perché è il tempo di riscostruire la città, questa è la grande sfida. La città deve essere ricostruita dalla politica, dall’urbanistica, ma deve essere anche abitata da comunità umane. Oggi nelle periferie si gioca la sfida dell’integrazione dei rifugiati e degli immigrati, ma l’integrazione non la fanno le istituzioni, sono le comunità che integrano e le comunità non esistono più. Dobbiamo far rinascere una grande passione civile e anche religiosa per le periferie, per abitarle nuovamente. Io appartengo a una generazione che da giovane andava in periferia per vivere solidarietà e il Vangelo, oggi invece le periferie si evitano perché le si considera insicure, ci si chiude nei compound per evitare il contatto con i periferici… ma non c’è futuro nelle nostre città se le periferie non si ricongiungono a un destino e a una vocazione comune.

Noi non possiamo più vivere e agire come se fossimo negli anni Settanta, quando le periferie erano povere ma avevano reti e presenze: oggi le periferie sono abitate da grandi solitudini. Uomini e donne oggi sono soli nelle periferie, ma l’uomo non vive solo e quindi sempre più spesso si sviluppano legami e aggregazioni altri rispetto a quelli di ieri, ad esempio le mafie.

Andrea Riccardi

Appunto. Andare nelle periferie, uscire dal centro… ma per fare cosa? Per una questione di carità?
Intanto Bergoglio non è un uomo del progetto ma del processo: uscire, andare e radicarsi nelle periferie – che è un processo – è importante proprio perché la tendenza odierna è quella a isolarsi rispetto alle periferie e anche chi ci vive cerca di scappare. Ripeto, la criminalità e mafie sono una risposta al problema periferie, possibile che siano l’unica? Giustamente mi chiede “andare per fare cosa”? Io direi per vivere umanamente, per creare e vivere un nuovo umanesimo. È una sfida complessa, ma necessaria. Bisogna rivitalizzare e umanizzare le periferie, che in termini politici significa investire su di esse. L’altro processo in atto è che gran parte dei centri ha perso il suo volto, sono vetrine per i turisti o luoghi vuoti, i centri non esistono più. Ecco, dobbiamo partire dalle periferie per ricostruire la città.

Quindi partire dalle periferie per comprendere il presente, che oggi letto dal centro ci resta incomprensibile. Partire dalle periferie per “ricominciare” la storia, ripete lei nelle conclusioni del suo libro. Quale nuova chance esattamente ci offrono?
Innanzitutto c’è la chance di reinserire uomini e donne nella storia. Il problema più grande di oggi è che la storia la fanno in pochi, pochissimi: chi decide ha un volto perduro nell’orizzonte siderale. Noi dobbiamo far rientrare i popoli nella storia. Non dimentichiamo infatti le rivolte dei periferici, della banlieu di Parigi, dei giovani, ma anche dei periferici della società inglese che hanno votato la Brexit: non li giustifico, ma dico che gli uomini e le donne pesano nella storia, bisogna farceli rientrare. Altrimenti si congedano dalla storia o se ne vendicano.

Le periferie sono la nostra chance di reinserire uomini e donne nella storia. Il problema più grande di oggi è che la storia la fanno in pochi, pochissimi, noi dobbiamo far rientrare i popoli nella storia. Altrimenti essi si congedano dalla storia o se ne vendicano.

Andrea Riccardi

Papa Bergoglio però parla spesso anche di periferie esistenziali: questo cosa aggiunge al ragionamento che abbiamo fatto fin’ora?
Certo, le periferie sono urbane e umane e le due possono coincidere oppure no. Per esempio le periferie umane sono gli anziani nella città: ovunque siano collocati urbanisticamente, essi sono periferici e questo è un gradissimo problema. Poi ci sono le generazioni periferiche, i gruppi periferici… la nostra società crea continuamente periferie umane perché è una città dell’utile. E poi è una città che con internet si collega a chi vuole, a migliaia di km di distanza, ma evita la realtà della prossimità. Luigi Zoia ha scritto un bel libro in cui afferma che il nostro è il tempo della morte del prossimo, ma il prossimo è una componente essenziale della storia umana, senza prossimo non c’è vita: stiamo costruendo un mondo sbagliato, escludendo milioni di uomini, dobbiamo reimparare a vivere la prossimità.


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