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Dal “dopo di noi” al “metter su casa”, la sfida radicale per la vita indipendente

Pubblichiamo l'intervento fatto da Sergio Silvestre, presidente di Coordown, alla Conferenza sulla Disabilità in corso a Firenze. Quando parliamo del “Dopo di noi” o di “Durante noi” non ci accorgiamo che l’attenzione è sempre rivolta al “noi”. Bisognerebbe quindi rovesciare la prospettiva: perché non partire dal mettere su casa? Una prospettiva che apre a una avventura condivisa all’insegna della fiducia nella vita.

di Sergio Silvestre

Pensare a progetti di “vita indipendente” per persone con disabilità intellettiva è possibile, ma significa aver tra gli obiettivi quello di individuare delle linee guida generali che li coinvolgano, come auspicato dalla Convezione ONU in cui si riconosce il diritto ad abitare in autonomia e scegliere “dove e con chi vivere”.

Premesse per un abitare autonomo

L’abitare è una questione etica che comprende un “diritto di scelta”, un’attenzione all’habitat (al proprio territorio), una progettualità attenta e professionale (in continua formazione), in grado di verificarsi e di mutare incidendo culturalmente sulla società. L’ascolto dei bisogni, delle aspirazioni e dei desideri di famiglie e persone (il loro progetto di vita), è significativo in queste progettazioni affinché si trovi una giusta risposta (e non in base alle risorse disponibili) alla realizzazione di una “vita buona” che conduca all’autonomia, all’autodeterminazione, alla vita indipendente.

L’azione che conduce ad un obiettivo come quello sopra definito non è fine a se stessa ma va calata nella realtà locale e quindi non si possono legare le azioni educative solo alla casa, ma è necessario considerarle in un contesto più ampio. In questo si inserisce un pensiero alla persona che si sviluppa con la presa in carico ed il progetto con/sulla persona sviluppato nella sua globalità. “Ascoltare” un progetto di vita delle persone non è certo cosa semplice, perché prevede già un percorso sull’autonomia alle spalle. L’autonomia, intesa secondo il modello moderno, nella pratica non è nient’altro che l’espressione delle preferenze soggettive (principio di autodeterminazione), dotate tutte di una stessa dignità e validità.

La soggettività, invece, non porta ad un’autonomia in quanto ogni soggetto, preso singolarmente, non è autonomo ma necessita di cose/persone per realizzarsi. Qualsiasi sia il risultato che intendiamo ottenere il modello di autonomia deve essere per lo meno condiviso da un “sistema” perché possa essere efficace. Diversamente si rischia di cadere in un’autonomia “manipolata” dove i bisogni sono l’espressione di personali teorie “creative” della propria verità, o supposizioni su cosa possa desiderare l’altro o si cercherà di volta in volta, di imporre, di indurre o di inculcare un’autonomia semplicemente sulla base dei propri (e non altrui) sentimenti/bisogni. Si tratta quindi di definire un modello che tenga conto dell’autonomia del singolo inserito in un contesto sociale e comunitario (e non fine a se stessa).

Mettere su casa: una prospettiva per tutti

Quando parliamo del “Dopo di noi” o anche quando crediamo di esprimerci in maniera più appropriata usando il “Durante noi” non ci accorgiamo che l’attenzione è sempre rivolta al “noi”, a noi genitori e familiari delle persone con disabilità intellettiva. Bisognerebbe quindi rovesciare la prospettiva. Perché non partire da una esigenza in cui ci riconosciamo tutti: il mettere su casa? È un'espressione comune della nostra lingua italiana, facilmente condivisibile da tutti. Lo abbiamo sperimentato quando abbiamo lasciato la casa dei nostri genitori per costruire una nostra famiglia. Perché non considerare possibile anche per le persone con disabilità intellettiva questa straordinaria avventura? Quale sfida entusiasmante si può aprire per loro e per noi? Quale occasione di crescita umana ci si offre e quale occasione di crescita si propone alla nostra società sulla via di una reale inclusione sociale?

Per affrontare tale tema sono essenziali due sottolineature. La prima, si sintetizza in un deciso “no” ad ogni forma di istituzionalizzazione, anche quando è sostenuta da “buone intenzioni”. La seconda riguarda la necessità di evitare ogni forma di improvvisazione. Bisogna lavorare con serietà alla costruzione di un “pensiero” sulla persona, su cosa si intenda per vita autonoma, su cosa si basi la capacità di autodeterminazione, su quali siano i reali desideri e esigenze nello sviluppo di un progetto di vita, che sia condiviso e condivisibile nel concreto contesto sociale in cui la persona vive. Solo così può nascere un progetto educativo sostenibile. Quando pensiamo a un progetto di vita, su quale vita ragioniamo? Una vita protetta? Una vita inclusiva? Una vita condivisa? Io vorrei proporvi di pensare alla vita attiva.

Guardando all’esperienza di ciascuno, non possiamo non riconoscere che nessuno di noi è totalmente indipendente e auto-sufficiente. Tutti abbiamo limiti e una capacità espressiva e operativa differente. Ridotte potenzialità non portano necessariamente all’impossibilità di una vita attiva, bensì a una vita attiva calibrata sul potenziale ideativo e realizzativo di ciascuno. La vita attiva si svolge nel mondo: è quindi una dinamica interpersonale riconosciuta. Per questo gli stereotipi in cui vengono imprigionate spesso le persone con disabilità rappresentano un evidentissimo limite alla realizzazione di un progetto di vita attiva.

Il primo problema della mancata inclusione sta nel muro innalzato dai presunti “normodotati” proprio a partire dagli stereotipi, che banalizzano fenomeni fisici e intellettivi, interpretandoli secondo modalità disarticolate e immodificabili. Le persone con disabilità intellettiva hanno bisogno di persone intorno a loro agili e attive nell’accogliere e sviluppare il loro mondo interiore, coscienti che spesso le prime apparenze sono fuorvianti e che ogni conquista raggiunta riscatta lo stereotipo che “immobilizzava” quella tappa della vita attiva.

Ogni vittoria esistenziale della persona con disabilità intellettiva fa evolvere la propria famiglia e tutto il contesto che la circonda. Solo a partire da questo accadere è possibile intercettare correttamente i veri desideri delle persone disabili e quelli dei loro familiari! La persona con disabilità intellettiva ha bisogno di essere circondata da gruppi di riferimento con funzione di specchio che mostrino l’immagine del loro cambiamento quale immagine riconosciuta all’esterno. La vita attiva non è un fatto individuale, ma ha altissimo valore solo se vissuta nelle relazioni e nel contesto sociale. Le persone che vivono accanto alla persona con disabilità intellettiva non sono importanti solo per la dimensione sentimentale, emozionale ed affettiva, ma hanno un ruolo decisivo di rafforzamento cognitivo e di incentivo all’azione.

Quando parliamo di inclusione intendiamo quindi una strategia per sfaldare stereotipi e produrre un contesto attivo sociale e di comunità. Della vita protetta ne conosciamo già i contorni: risulta quindi altamente prevedibile. In fondo la “estraiamo” dalla vita “normale” e la confezioniamo per la persona con disabilità intellettiva. Nasce quindi da una concezione statica della persona di cui conosciamo profili funzionali, bisogni e propensioni che tendiamo necessariamente a standardizzare. Non è scomparsa però la modalità di intendere la vita protetta in forme segreganti, espresse da organizzazioni più o meno palesi di scuole speciali, laboratori protetti, centri diurni e case alloggio ad accoglienza riservata. La vita attiva inclusiva invece richiede piena conoscenza e valorizzazione del tessuto sociale e delle dinamiche ambientali. È profondamente soggetta a mutevolezza, richiede una capacità di adeguarsi continuamente a processi di innovazione. Accetta con fiducia l’impatto con la complessità. Si misura con coraggio su livelli di esperienza progressivamente più complessi, ma sempre adeguati alle abilità raggiunte.

Per questo i progetti di vita attiva (ribadisco, termine da preferire a vita indipendente o autonoma) sfidano la nostra società nella quotidianità sul tema del benessere comune e della tutela dei processi evolutivi propri di ogni persona. In tali progetti, che hanno come scopo la costruzione di una adultità consapevole anche per le persone con disabilità intellettiva, va delineato un patto di corresponsabilità educativa fra famiglie, associazioni, Stato e società civile superando l’assistenzialismo e in ossequio al principio di sussidiarietà, regolato anche dall'articolo 118 della Costituzione italiana. […]

Ciò richiama ad una sorta di “patto di corresponsabilità educativa” definibile come un accordo e un impegno formale e sostanziale tra famiglia, Stato e società civile, con la finalità di rendere esplicite e il più possibile condivise, per l’intero progetto di vita, aspettative e visione d’insieme del percorso formativo e di crescita verso un’adultità più consapevole. Le istituzioni, pubbliche o private, assumono il ruolo fondamentale di affiancare i genitori (fratelli e sorelle) nello sviluppo dei figli (fratelli) sotto gli aspetti personale, relazionale e civile. Per costruire una forte alleanza educativa tra famiglia e servizi, durante tutto il percorso di crescita, diventa necessaria una condivisione responsabile di valori quali fiducia, rispetto, solidarietà, collaborazione. Questi sono progetti che richiamano un forte senso civile di ogni essere umano e per tale motivo, dovrebbero essere sostenuti, in quota parte, da tutti i soggetti coinvolti nel patto di corresponsabilità educativa, richiamando lo sviluppo di un’umanità che si fondi su valori fondanti l’Uomo.

Mettere su casa è una comune espressione della nostra lingua italiana che comprende innumerevoli aspetti della vita, lanciata verso la sua definizione adulta. Prevede la realizzazione della propria individualità adulta in un ambito abitativo definito da molteplici fattori sociali: con chi condividere l’alloggio, il vicinato, il quartiere, la città. Non si tratta unicamente di “saper fare”, ma amplia la propria esperienza di vita ad un “saper essere”. Di questo dobbiamo tener conto quando affrontiamo una progettualità di abitanza attiva per persone con disabilità intellettiva. Non può trattarsi quindi unicamente di un addestramento a compiti domestici, bensì di una educazione alla realizzazione di un sé in profonda connessione con altre persone, con l’ambiente urbano, sociale e culturale. Va quindi privilegiata una visione di ampio e lungo respiro, che garantisca rispetto dei desideri e dei bisogni, gradualità nell’impostazione e nell’evoluzione del progetto individuale e di gruppo, sostenibilità e realismo, sviluppo di un senso di appartenenza a comunità, luoghi e paesaggi. Mettere su casa vuol dire anche distacco: un cambio di stile di vita in cui adulti collaborano, esprimendo il piacere della reciprocità e della solidarietà.

Certamente si può mettere su casa come sigle, qualora gli educatori che aiutano la persona con disabilità lo ritengano più appropriato e rispettoso. Ma ovviamente sarà più comune l’esperienza di gruppi che si costituiscono e si consolidano nel tempo, in base a esperienze di amicizia e condivisione. In questo senso le associazioni di persone con disabilità intellettiva e di familiari costituiscono un valido sostegno alla realizzazione di rapporti amicali e di reti di aiuto reciproco nell’affronto delle difficoltà e nella creazione di un clima positivo, solido ed equilibrato. Compito degli educatori sarà quello di considerare la molteplicità dei fattori in campo in tale avventura e di curare strategie di alleanza fra tutti gli attori (persone disabili, genitori, familiari, vicinato, quartiere, città, ambiti sociali dalle parrocchie ai centri di aggregazione più svariati). La tenuta e l’evoluzione dei gruppi vanno osservate e valutate con discrezione, rispetto e grande professionalità, per individuare precocemente punti deboli o difficoltà e per favorirne il superamento. […] Il contesto dell’abitare sarà preferibilmente urbano e – perché no – in luoghi di pregio, affinché le persone con disabilità intellettiva si sentano parte integrante e riconosciuta in una storia e in una comunità articolata e attiva, ricca di sollecitazioni sociali, culturali, religiose. L’esperienza di quote di multiproprietà potrebbe favorire esperienze di solidarietà nell’affronto di oneri finanziari cospicui e maggiore serenità nell’affronto del futuro. A questo livello si inseriscono esperienze virtuose di associazioni e di fondazioni nate dalla reale esperienza innovativa di genitori e familiari attenti alla dimensione inclusiva della propria azione educativa e culturale e non da ultimo la promulgazione della recente legge n.112/2016 cosiddetta “Dopo di noi” che ha introdotto nuovi strumenti e agevolazioni.

Concludendo, riprendo la sottolineatura del cambio di prospettiva. In direzione opposta alle lugubri prospettive del “dopo di noi”, esito di una concezione simbiotica fra figlio e genitori destinata a una svolta drammatica, la prospettiva del “mettiamo su casa” apre a una avventura condivisa all’insegna della fiducia nella vita. Richiede un impegno creativo profondamente legato alla storia personale e sociale, sfida il mondo circostante sul tema del benessere comune. La vita attiva non può ridursi a un fiume il cui scorrere viene lasciato a se stesso: è bene che l’alveo sia sicuro e gli argini ben sorretti, affinché buoni risultati si possano raggiungere a valle. Ragionando in tal senso occorre mantenere la capacità di cogliere insospettate e felici scoperte, mentre magari si va cercando altro. Non ci si deve stupire: spesso le persone con disabilità rivelano tesori nascosti. Non perché non li avessero, ma soltanto perché la nostra disattenzione e la scarsa propensione ad aspettarci l’inaspettabile, li lasciava nell’ombra e non ne riconosceva l’esistenza nel loro discreto splendore.

* Intervento di CoorDown al gruppo 2 “Vita indipendente” in occasione della V Conferenza Nazionale sulle Politiche della Disabilità, 16 settembre 2016


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