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Il Trono di Spade sul trono della tv

Con quelli di ieri notte fanno 38: 38 Emmy awards per la serie Il Trono di spade. È il record per una produzione televisiva. Ma qual è il segreto del successo planetario di questo successo planetario? Ecco cosa ne aveva scritto Daniela Cardini nella sua rubrica su Vita magazine

di Daniela Cardini

La prima parola-chiave è “qualità”. Game of Thrones ha il marchio di HBO, il canale televisivo statunitense via cavo che ha firmato alcuni dei più importanti successi seriali degli ultimi anni: I Soprano, Sex and the City, Boardwalk Empire, Vinyl, Six Feet Under, True Blood, The Wire, True Detective, solo per citare alla rinfusa alcuni titoli che hanno nobilitato la riflessione accademica sulla televisione e hanno aperto le porte della serialità agli appassionati di cinema. La cosiddetta “cinematic television”, di cui HBO è stata l’apripista fin dagli anni Settanta, è fatta di temi originali e spesso scabrosi, sceneggiature complesse, personaggi densi, regia, fotografia e montaggio di livello cinematografico, attori da Oscar.

Un’altra parola-chiave di Game of Thrones è fandom. Era dai tempi di Lost, la serie che nel 2004 ha cambiato il modo di guardare la tv, che un prodotto seriale non scatenava un tale dibattito. Sui social network non si parla d’altro, tanto che i pochi fan che non riescono a mettersi in pari con la sesta stagione, trasmessa da Sky Atlantic in contemporanea con gli Stati Uniti, sono costretti a slalom improbabili per evitare gli spoiler. Secondo una recente ricerca di Sky UK, GoT genera più di ogni altra serie il fenomeno cosiddetto “Fomo”, fear of missing out, cioè la paura di restare esclusi dalla conversazione social. Il che obbliga molti fan alla vile menzogna: pur di non confessare di non aver visto una puntata, tanti preferiscono, come a scuola, ricorrere al “bigino”: un riassunto in rete (persino il blasonato New York Times li pubblica regolarmente dopo ogni puntata), una sbirciata ad uno spoiler, un’occhiata di straforo alla pagina facebook del programma. Game of Thrones è un must, insomma. Non è ammissibile non conoscerla o non guardarla, perlomeno presso il pubblico più giovane.

E poi c’è il binomio inscindibile sesso e violenza, esibito spesso – forse troppo -, senza filtri né pudori. L’esperienza di vedere scene eccezionalmente esplicite, che normalmente la tv non mostra, fa di Game of Thrones una serie “smart”, adatta ad un pubblico emancipato – o che ama pensarsi tale.

Un’altra marca distintiva è il genere, il fantasy, la cui attuale popolarità è amplificata dal legame con la letteratura. Le storie di Game of Thrones si basano sul ciclo di romanzi “Cronache del ghiaccio e del fuoco” di George R. Martin. La voce di Wikipedia dedicata a GoT ne descrive l’ambientazione come “un grande mondo immaginario costituito principalmente dal continente Occidentale (Westeros) e da quello Orientale (Essos). Il centro più grande e civilizzato del continente Occidentale è la città capitale, Approdo del Re, dove si trova il Trono di Spade dei Sette Regni. La lotta per la conquista del trono porta le più potenti e nobili famiglie del continente a scontrarsi o allearsi tra loro in un contorto gioco di potere”. (Oltre alla quantità di parole-chiave, un ulteriore indicatore della popolarità di una serie è lo spazio che occupa su Wikipedia: nel caso di Game of Thrones è davvero impressionante). In ossequio alle regole di genere, insieme agli esseri umani l’affollatissimo universo di Game of Thrones è popolato di draghi, zombie, umanoidi malvagi, esseri soprannaturali, persino meta-lupi. Ma per quanto straordinari e fantasiosi siano i personaggi, le relazioni che li legano fanno capo ai classici ingredienti di base di ogni narrazione, dai grandi romanzi alla soap opera: sentimenti, sesso e potere.

Infine il male, motore indiscutibile della serialità più recente: anch’esso ha un ruolo fondamentale in Game of Thrones. I fan sono costretti a capire subito la dura lezione dei Sette Regni: non ci si può affezionare a nessuno. Tutti possono morire. Nella prima stagione, ad esempio, viene subito fatto fuori uno dei protagonisti principali, Ned Stark, che sembrava la classica ancora di salvezza cui aggrapparsi per sopportare la violenza gratuita del re folle e ubriacone. Invece no, Stark non si salva. E per gli spaesati spettatori inizia un’altalena emotiva di speranze e delusioni che culmina con la storia di Jon Snow, uno dei pochi “buoni” a resistere fino alla quinta stagione. Ma anche lui finisce pugnalato a morte nel finale di stagione, scatenando uno “hype” senza precedenti per un’estate intera: “Jon Snow è morto veramente?”. Che io possa essere perdonata per la trivialità del paragone, ma in questo meraviglioso cliffhanger che lascia col fiato sospeso milioni di persone mi sembra di ritrovare l’eco di un’altra prodigiosa operazione di marketing, quella che nel lontano 1980 tenne in ansia mezzo mondo a chiedersi: “Chi ha sparato a JR?”. E anche in quel caso, la risposta fu piuttosto banale (tranquilli, non la svelerò, nel caso non siate in pari con le puntate).


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