Cooperazione & Relazioni internazionali

Un Nobel politico per riaprire gli accordi di pace “sospesi” in Colombia

La scelta di insignire il presidente colombiano Juan Manuel Santos sarebbe una precisa scelta della comunità internazionale per ribaltare l’esito del referendum. Un ruolo chiave lo avrebbe gocato la Norvegia, da 4 anni al tavolo delle trattaive all’Havana

di Cristiano Morsolin

Ariel Avila della Fondazione “Paz y Reconciliacion” commentava in TV a Bogotá alle 8.10: «Questo premio Nobel al Presidente Santos è evidentemente un messaggio politico volto ad esercitare pressioni a Uribe e convincere tutte le parti in causa».

Molti analisti considerano che il Premio Nobel per la Pace sia un mandato della comunità internazionale per spingere nella direzione di portare a termine gli accordi di pace firmati con le FARC il 26 settembre; la Norvegia infatti accompagna da oltre 4 anni i negoziati de l’Havana e pare abbia convinto la Reale Accademia a questa decisione strategica per firmare definitivamente un accordo ancora sospeso a causa del no del referendum.

Il premio è un incoraggiamento a non gettare la spugna: l'accordo con la guerriglia è stato clamorosamente bocciato dal referendum popolare di domenica scorsa, ma il comitato per il Nobel norvegese ha voluto ugualmente premiare il presidente che il giorno dopo la sconfitta ha invitato le parti a partecipare a un ampio dialogo nazionale perché il processo di pace non muoia.

Sofia Gaviria, sorella del Governatore di Antioquia Guillermo, sequestrato durante una marcia non violenta e poi assassinato dalle FARC – ha partecipato alla Marcia Perugia-Assisi nel 2005, oggi come Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato ha dichiarato che «questo premio rafforza l’impegno per la pace che deve coinvolgere tutti per lavorare insieme».

Alirio Uribe, tra i difensori dei diritti umani più importanti a livello mondiale, come vice presidente della Federazione Internazionale FIDH e ex coordinatore Colectivo Abogados Alvear Restrepo e oggi deputato di sinistra dichiara: «Che il mondo intero sappia che ora come nunca-mai, la Colombia vuole la pace». Il presidente Juan Manuel Santos ha appena commentato che si tratta «di un onore e di una prestigiosa onoroficenza che non è per me, ma per tutte le vittime del conflitto. Insieme vinceremo il premio più importante che è la pace per tutti. Dobbiamo lavorare alla pace per tutta la vita, la pace è vicina, come nazione riusciremo a costruirla insieme», conclude Santos.

Dopo 52 anni di conflitto armato che ha provocato 6 milioni di desplazados-rifugiati, 220.000 morti, 8 milioni di vittime, l’Italia e la Comunità Internazionale deve accompagnare questa ricerca di pace per non ritornare nel terrore della guerra.

Il ponte simbolico a i 70.000 studenti universitari, giovani, difensori dei diritti umani, madri delle vittime che mercoledi hanno riempito Piazza Bolivar, si uniscono alla comunità Internazionale che attraverso il Premio Nobel di pace concesso a Santos gridano all’unisono NUNCA MAS, Mai più guerra! Pace subito!

La situazione però, nonostante il premio è tutt’altro che semplice da risolvere per Santos.

I nodi critici del referendum
Con il fallimento del referendum di domenica scorsa, i colombiani hanno risposto al quesito: «Sostieni l'accordo finale per terminare il conflitto e per la costruzione di una pace stabile e permanente». I No sono stati il 50,21% e hanno superato i Si di appena 55mila voti, con un’astensione del 62%.

L’accordo prevedeva sei punti principali: la fine dei combattimenti, il disarmo dei guerriglieri sotto la supervisione di una missione delle Nazioni Unite (che aveva già verificato la distruzione di 620 chilogrammi di esplosivo); l’uscita allo scoperto e il reintegro nella società di quasi 6 mila guerriglieri; riparazioni morali e materiali per le vittime e sanzioni per i responsabili dei reati più gravi; la conversione del gruppo in un movimento politico legale con l’assicurazione di un minimo di cinque seggi alla Camera dei deputati e di cinque seggi al Senato; una riforma agraria per la distribuzione delle terre e l’accesso al credito; la fine delle coltivazioni illecite nelle aree di influenza delle FARC, tra cui quella di coca, e un programma sanitario e sociale contro il consumo e il traffico di droga.

L’ex presidente Uribe, e leader dell’opposizione del Centro Democratico, ha sottolineato quali sono i punti che dovrebbero essere rivisti in una possibile nuova intesa con le Farc: le modalità della cosiddetta «giustizia di transizione», la futura rappresentazione politica della guerriglia, la questione del narcotraffico e le rivendicazioni delle vittime del terrorismo.

Il potere delle oligarchie tra populismo e demagogia
Lo scrittore Héctor Abad Faciolince , nel quotidiano El País, spiega la debacle del referendum nel suo articolo Explicar el fracaso: «In Colombia, come nel resto del mondo, la battaglia democratica si gioca tra una classe politica vecchia e stanca (abbastanza sensata, corrotta come sempre e screditata da decine di anni di critiche feroci da parte di noi “intellettuali”) e un’altra classe politica meno sensata, più corrotta di quella tradizionale, ma piena di slogan e pagliacciate populistiche. Il populismo e la demagogia volgare stanno avendo la meglio ovunque. Silvio Berlusconi ha aperto le danze, perché l’Italia è maestra del trending topic e lì tutto è inventato prima che altrove. Poi sono arrivati Hugo Chávez, Vladimir Putin, Álvaro Uribe, Daniel Ortega. Arriveranno anche Donald Trump e Marine Le Pen? Forse. Sono tutti demagoghi perfetti, cleptocrati che denunciano la vecchia cleptocrazia. Il popolo preferisce votare loro pur di cambiare. Un salto nel vuoto? Sì. Meglio un salto nel vuoto che la noia del buon senso», conclude Abad.

Nella sua campagna elettorale Uribe, sostenuto dall'ex procuratore della repubblica, Alejandro Ordonez e dall'ex candidato del loro gruppo politico alle ultime elezioni, Oscar Ivàn Zuluaga, ha puntato ad impaurire l'opinione pubblica sostenendo che il trattato di pace garantiva ai militanti delle Farc, anche se in modo camuffato, l'impunità per i loro crimini. Un accordo che potrebbe aprire le porte del paese al narcotraffico che dai 60.000 ettari di produzione di coca e’ balzato a quasi 200.000 ettari.

Ora la grave polarizzazione tra sponde spesso inconciliabili, si sta esasperando per la fretta di arrivare ad un accordo per salvare il salvabile entro il 31 ottobre, poi come dice il Comandante Timocenko “ritornera’ la guerra”.

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La marcia del 5 ottobre


Le ragioni del NO
Il presidente della Conferenza episcopale colombiana, monsignor Luis Augusto Castro Quiroga, ha spiegato che non si tratta di un “no” alla pace, ma agli accordi, sottolineando che bisogna continuare a lavorare per la pace. In alcune dichiarazioni a Radio Vaticana www.radiovaticana.va , il presidente del episcopato colombiano ha affermato che «prima di tutto, occorre dire che i “Si” e i “No” non fanno riferimento alla pace, fanno riferimento soltanto all’accordo per arrivare alla pace. Quelli che dicono “no” considerano che l’accordo vada corretto in alcuni punti, però anche loro vogliono la pace. Per cui, questo non è un caso di guerra e pace, ma semplicemente di continuare a lavorare intorno a questo processo di pace per includervi quei cambiamenti, se è possibile, che loro chiedono».

Di segno totalmente opposto il commento del Ministro degli Esteri Maria Angela Holguin, che ammette «nel Governo del Presidente Santos credevamo che difficilmente a un colombiano gli potesse passare per la testa di dire NO a vivere in pace, NO a maggiori vittime, NO all’aumento delle coltivazioni di coca. Devo riconoscere che pensavamo che Colombia fosse una nazione che voleva vivere in pace e voltare pagina ma il risultato del referendum con il NO dimostra l’esistenza di tanto odio e rincori, che non sono stati superati». Il capo delegazione del Governo all’Avana, Jaramillo prima del referendum aveva lanciato un appello su El Espectador considerando il SI come una questione di “vita o di morte”. Il voto del NO significa cancellare 4 anni di negoziazioni alla ricerca della pace. Con conseguenze potenzialmente catastrofiche.

Hanno detto Si gli abitanti del Pacifico, dei Caraibi e dell’Amazzonia: popoli ripetutamente castigati dalla guerra. Le popolazioni afro, indie, contadine. Hanno detto Si le vittime della guerra, per la prima volta sulla scena, riconosciuti come interlocutori negli accordi. Hanno detto Si, e ampiamente, le nuove generazioni, solidali e desiderose di un paese nuovo, come ho spiegato precedentemente per VITA

Il Deputato Davide Mattiello (PD), membro della Commissione Antimafia della Camera, gia dirigente nazionale di LIBERA e Fondazione Benvenuti in Italia, sottolinea come la pace sia un cammino, strada facendo, non un punto di arrivo: «la firma dell’accordo è un punto di ri-partenza, non è un punto di arrivo: è la tappa di un cammino doloroso. Non si può far rinascere un Paese da “separati in casa”: prima o poi la violenza filtrerebbe nelle crepe di una società non ricomposta e frantumerebbe il legame della convivenza. Ma per diventare una comunità pacificata ci vogliono grande lealtà e rispetto per le vittime. La lealtà che serve a curare la diffidenza seminata in tanti anni di tormenti e che dipenderà soprattutto dalla condotta dei responsabili politici di entrambe le parti. Il rispetto per le vittime che devono sentirsi riconosciute e risarcite, a cominciare dai bambini-soldato. Sarà ancora lungo il cammino del vostro popolo e difficile, anche perché non mancherà chi per proprio misero tornaconto elettorale, soffierà sul fuoco».

Concordo con Davide Mattiello nella sua analisi che mette al centro le vittime. Infatti anche le vittime di Bojaya – dove le FARC hanno bombardato una chiesa cattolica provocando 92 morti, sottolineano che «la volontà delle vittime deve essere rispettata, la societa’ che ha votato NO ha un debito con i diritti delle vittime e con il costo di vite umane che questo voto provoca nei popoli che soffriamo la guerra».


Cristiano Morsolin è esperto di diritti umani in America Latina dove vi risiede dal 2001.
Blog: Diversidad en Movimiento



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