Cooperazione & Relazioni internazionali

Vi racconto il mio agosto in un Centro di accoglienza straordinaria

Il diario dell'esperienza estiva di una volontaria in un Centro di accoglienza straordinaria (Cas) in Sicilia. Tutto è gestito come un grande asilo per minori con insufficienza mentale. I ragazzi non devono fare assolutamente niente. La si smetta di dire che stiamo ospitando un sacco di migranti. Molti ne ospitiamo, ma la maggior parte, credo, li alloggiamo, li nutriamo, e li rendiamo un po’ autistici...faremo bene?

di Anna Zorza

Arrivo una sera in un paese siciliano, un paesone come ce ne sono tanti in Italia, un mucchio di case buttate qui e là su una terra ondeggiante. Non una bellezza, non una rarità, anzi un posto abbastanza anonimo, attraversato da strade che promettono di portare al mare qualche curva più giù. C’è molta noia e strade gialle.

Vi arrivo una sera di agosto, diretta ad uno dei centri di accoglienza più grandi della regione. Vi arrivo a sole già tramontato, ma con abbastanza luce per ricordare bene, ora, quel che vedo al mio ingresso nel cortile del centro. Ricordo benissimo quella luce scura e gialla, e due cose: da un lato le sagome di tanti ragazzi scuri, in piedi dritti come paletti, intenti sui telefonini, dall’altro un mazzo di denti bianchissimi, i sorrisi del gruppo dei bangladesi che salutano me e i miei compagni con le mani alzate.

Le persone del Bangladesh, insieme a qualche pakistano, sono una piccola minoranza asiatica all’interno di questo Cas che, al momento del mio arrivo, ospita circa 200 uomini e ragazzi, quasi tutti provenienti dall’Africa occidentale. Rimango con loro due settimane, e, fra le altre cose, vorrei capire chi sono queste persone, da dove vengono, perché sono arrivate fino qui, e cosa vogliono fare della loro vita. Me ne vado poi con quasi nessuna risposta alle mie domande, ma tre cose, di quelle che non mi immaginavo, le ho imparate comunque.

Prima di tutto due parole sul Cas: si tratta di un Centro di accoglienza straordinaria, dove i migranti stanno durante tutto il tempo necessario all’avanzamento dell’iter burocratico che li riguarda: foto segnalamento, un primo colloquio in questura in cui si riassumono le circostanze ed i motivi della migrazione, un secondo colloquio con la Commissione territoriale che – sulla base del documento redatto in questura – dovrà poi decidere se e quale tipo di tutela fornire al richiedente asilo (asilo politico, permesso di soggiorno di lungo periodo, permesso di breve periodo, diniego e quindi respingimento). Come ormai tutti sanno, le tempistiche dichiarate di questo percorso legale sono a dir poco scollegate dalla realtà: dai pochi mesi sulla carta si passa, nella realtà, ai due, tre anni.

Ecco un riassunto di quel che ho imparato, volente o nolente, in questo breve tempo che ho passato nel CAS.

Primo: quel centro non è un posto di libertà e di responsabilità

Tutto è gestito come un grande asilo per minori con insufficienza mentale. I ragazzi non devono fare assolutamente niente, se non starsene buoni e rispettare gli orari per andare a ritirare i pasti. Non si devono prendere cura delle loro stanze, la cooperativa lo fa per loro: gli ausiliari entrano nelle camere a qualsiasi ora del giorno, non importa se chi c’è dentro sta telefonando alla mamma in Mali, o guardando la partita di calcio, o un film porno, gli operatori entrano in ogni camera e in ogni bagno, puliscono e portano via la spazzatura.

E poiché, forse, fra stare due mesi in un Cas e rimanerci due anni non c’è poi una grande differenza, nulla o quasi nulla è proposto agli ospiti del centro: nessuna attività di conoscenza del Paese, nessuna attività sportiva, nessun tentativo di favorire l’integrazione nella realtà locale. Ah no, a dire il vero è proposto un corso di italiano: due volte a settimana, in un’aula con 4 banchi e 12 sedie. In un centro che in media ospita 200 persone. C’è anche un vocabolario francese-italiano, la cui esistenza viene scoperta per colpa di noi volontari.

Non parliamo quindi di cercare e trovare un lavoro, umile, in nero. Ah no, a dire il vero qualcuno, più sveglio degli altri, ogni tanto ce la fa, e con i soldi racimolati nelle campagne è addirittura in grado di acquistare e dare nuova vita a dei vecchissimi Ciao dell’era Craxi. Grazie a tali magici strumenti la mobilità di queste persone decuplica, e così le loro ulteriori possibilità, e la conoscenza e la confidenza che riescono ad instaurare con il territorio in cui vivono.
Il corollario è che in presenza di questi fortunatissimi è letteralmente impossibile pensare di pagare un caffè al bar: subito sbucano da ogni parte, e instancabili vogliono offrirti ogni cosa, coca-cola gelato brioche anche se tu vuoi solo un caffè, allora si rassegnano al caffè e te ne pagano una ventina.

Non di solo pane vive l’uomo

Sentendo da lontano, dalle grandi città, in televisione, di “proteste furiose dei richiedenti asilo sul cibo offerto loro nei centri di accoglienza”, nulla poteva evitarmi di essere scossa da una pura e semplice indignazione: pur sempre di un gesto generoso si tratta, pur sempre di cibo offerto. Resto di questa stessa idea, a cui aggiungo però anche due settimane di malnutrizione pura e semplice (non ho nessun timore ad affermarlo). Un periodo che sarebbero il sogno di ogni bambino capriccioso, ma un incubo per me, per ogni persona sana di mente, e senz’altro per chi vede moltiplicate le due settimane in due anni: due lunghissime settimane senza l’ombra di verdura.

Venendo al sodo: la questione gestionale non dovrebbe essere materia di discussione solo per le anime belle. “Ospitare” qualcuno senza dargli strumenti per parlare, senza volere sapere chi è, senza verificare che sia in salute, buttandogli la ciotola, privandolo di ogni momento di vita normale, privandolo del dovere di occuparsi dello spazio in cui vive e dorme, non è ospitare. È esattamente ciò che serve per indurre, come in laboratorio, una sorta di autismo di massa, l’autismo di questi giovani forti, belli, che ce l’hanno fatta (perché superare la Libia ed arrivare fin qui vuol già dire vittoria), che passano uno, quattro, venti, quarantacinque mesi in questo cortile, colpiti da un immobilismo che è aggravato dall’undicesima piaga d’Egitto: Facebook per Android e le cuffiette. Quindi si smetta di dire che stiamo ospitando un sacco di migranti. Molti ne ospitiamo, ma la maggior parte, credo, li alloggiamo, li nutriamo, e li rendiamo un po’ autistici… faremo bene? Mah, chissà.

Il come si fanno le cose si rivela ancora una volta un fattore discriminante, anche senza arrivare alle situazioni più gravi di mala gestione da parte dello Stato e delle cooperative, come quella del Cara di Borgo Mezzanone. Un giorno, per esempio, ho potuto visitare un altro Cas, sempre nello stesso paese siciliano: una casona a due piani, che ospita venti persone in tutto. Gli ospiti di questo Cas sono le stesse persone, hanno le stesse storie alle spalle, la stessa Libia, gli stessi barconi, gli stessi morti. Ora aspettano la stessa lentissima burocrazia, ma lo fanno in una condizione di dignità: cucinando, occupandosi della casa, coltivando verdure nel minuscolo giardinetto della casa. I vecchi vicini di casa li consigliano sul quali verdure piantare prima in autunno.

Secondo: il razzismo è una malattia da cui si può guarire

Non parlo del razzismo in malafede (che ha, in verità, un fondamento economico, non razziale). Parlo proprio dello schifo della pelle nera. Ecco, mi sento abbastanza ottimista per affermare che da questo ribrezzo si può guarire, grazie ad una assidua frequentazione. Persino io, che dall’alto della mia arroganza mai ho sospettato di essere vittima di questa malattia sociale, persino io mi sono ritrovata, alla fine di queste due settimane, pienamente mescolata ad africani e pakistani, a non saper più distinguere le differenze fra gli odori, fra i colori e le disegni della pelle, dei capelli. Ed oggi, sulle scale della metropolitana, mi capita di risentire questi odori e rivedere questi disegni ed inseguirli con la mente e riconoscerli come familiari, di casa mia, di una casa più vera della mia casa bianca. Quindi coraggio, c’è speranza davvero per tutti (quelli in buonafede).

Terzo: c’è’ sempre spazio per cose bellissime, ovunque

La permanenza coatta di persone tanto diverse, e per così tanto tempo, nel centro di accoglienza, fa nascere, sulla tavola liscia di noia, attesa, e autismo, dei fiori. Storie assurde, personaggi da romanzo, accoppiate impensabili, poeti, ladri, malati immaginari, amicizie dolcissime e mute, che uniscono i quattro angoli del mondo senza nemmeno l’uso di una lingua in comune.

Nella completa dimenticanza del mondo, anzi nel completo disprezzo del mondo, quel centro diventa anche un luogo di gioiosa e sincera ed esultante preghiera al Dio delle mille religioni. Scommetto sullo stupore di chi, con una ricetrasmittente fantastica, si mettesse a raccogliere la quantità di preghiere che si alza da quel cortile annoiato e fermo. Ogni giorno, tre volte al giorno, gli africani pentecostali dedicano un paio d’ore alla lettura e al commento della Bibbia e alla lode a Dio. Ogni giorno, cinque volte al giorno, i numerosi musulmani sono raccolti a preghiera dal giovanissimo imam, un ragazzo pacato che mi ricorda moltissimo un mio compagno delle elementari. Ogni giorno loro mi chiedono come stia la mia anima, e mi invitano a pregare poiché solo in Dio io posso avere protezione.

Questa è forse la cosa che più a lungo ricorderò, fra tutte quelle che ho visto in quelle due settimane. In questa Europa cieca e senza coraggio, di fronte al pressapochismo criminale delle questure, di fronte al malaffare delle cooperative che tutti i giocano a dadi con le vite degli altri, di fronte alla totale indifferenza della gente verso le facce di questi nuovi arrivati, di fronte a tutto questo, dal cortile senza scampo e vista mare di quel centro di accoglienza, si alza, assurdo, potentissimo, gratuito, leggero, un grido continuo di preghiera fiduciosa, dolce, dalle bocche segnate di persone così diverse per età e storia, qualcuno di loro ce la farà, molti altri non ce la faranno, già si vede, altri fanno solo finta, ma ognuno di loro parla a voce alta del proprio destino, e lo chiama per nome, lo guarda, lo accetta, e non smette di lodare Dio, un pomeriggio dopo l’altro, un giorno inutile dopo l’altro, in un modo per me straordinario e del tutto incomprensibile.


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