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I diritti dei lavoratori protagonisti della Festa di Roma

Il nuovo film di Michele Placido, “Sette minuti”, si basa sull'opera omonima teatrale di Stefano Massini che narra il braccio di ferro tra le operaie di una fabbrica nel distretto tessile di Yssingeaux in Francia e la proprietà multinazionale che vuole delocalizzare. Un vicenda accaduta veramente nel 2012

di Monica Straniero

“Sette minuti”, il nuovo film di Michele Placido presentato alla Festa del cinema di Roma, e nelle sale il 3 novembre, si basa sull'opera omonima teatrale di Stefano Massini che è partito da un fatto di cronaca accaduto in Francia nel 2012, nel distretto tessile di Yssingeaux.

Una vecchia azienda che dà lavoro a diverse donne viene acquistata da una multinazionale. Quando le operaie ricevono la notizia che la fabbrica verrà chiusa e la produzione integralmente delocalizzata all’estero, iniziano uno spietato braccio di ferro con i nuovi soci. Alla fine si arriva ad un accordo che prevede una “piccola” clausola: le lavoratrici dovranno rinunciare a sette minuti su quindici della loro pausa lavoro.

Cosa sono sette minuti di fronte alla prospettiva di perdere il lavoro? Undici donne, che costituiscono il Consiglio di fabbrica rappresentativo delle trecento operaie dell’azienda, si dividono tra coloro che vorrebbero accettare la proposta e chi invece fiuta il tentativo della nuova dirigenza di giocare al ribasso sui diritti dei lavoratori.

«Su quella riunione ho costruito tutto il testo che si dipana intorno all’interrogativo, cosa sei disposto a far per lavorare?», racconta Massini.

Tutto molto realistico, situazioni e dialoghi restituiscono bene l'idea del mondo del lavoro nell’attuale contesto economico e politico. «Quei sette minuti rappresentano l’ultima roccaforte di un modello produttivo pensato da multinazionali e banche d'affari per lo smantellamento dello stato sociale», ha aggiunto Massini. «Perché sette minuti in un turno di otto ore non sono pochi. Ma moltiplicati per tutte le dipendenti, diventano 900 ore di lavoro gratuito al mese».

Così nell’epoca del guadagno ad ogni costo dove l’umanità, non conta più nulla e i lavoratori subiscono il ricatto: o così o si chiude, rinunciare a quei 7 minuti significa rinunciare alla dignità e fare un passo indietro nella lotta per la conquista dei diritti.

«L'attacco al mondo del lavoro, ai diritti e ai salari si fa di giorno in giorno più pressante. Un mondo pieno di ombre è quello dei call center», ha ricordato l’autore teatrale. «Lì un esercito di precari è alla totale mercé di un sistema che permette che le commesse vengano assegnate a quelle società che non applicano il contratto collettivo. E che dire del lessico del mondo. Molte parole come ad esempio salario e stipendio vengono dal gergo militare. Il termine freelance viene usato per la prima volta nel romanzo “Ivanhoe” di Walter Scott per descrivere un "mercenario guerriero medievale».

Michele Placido racconta invece che durante le riprese ha pensato molto a ”La parola ai giurati” un famoso film scritto da Reginald Rose e diretto da Sidney Lumet. «Il dubbio di un giurato contro la certezza degli altri nel condannare un probabile innocente, nel film un’operaia sola contro le sue compagne, pronta a far riflettere sulle ripercussioni che quella “piccola” rinuncia avrebbe sulla collettività. In 7 minuti emerge la complessità della società europea di oggi. Dopo la vittoria inaspettata della Brexit al referendum e le promesse tradite della globalizzazione, l’Unione europea è in mezzo ad una crisi conclamata», ha commentato il regista.

Ma non si parla solo di lavoro. Altri temi emergono dal film. Da un lato i diritti acquisiti da difendere delle lavoratrici più anziane, dal lato opposto le nuove forze che si affacciano al mondo del lavoro. Giovani qualificati ma consapevoli delle proprie condizioni di svantaggio. «Per loro c’è il rischio di una lost generation», aveva sottolineato Mario Draghi lo scorso aprile all’indomani della pubblicazione dei dati sulla disoccupazione giovanile in Europa.

E poi ci sono le odierne fobie sociali contro gli immigrati. Sebbene non esista una posizione universalmente accettata, diversi studi hanno già dimostrato come invece l’immigrazione rappresenti per il paese di accoglienza una grande opportunità per affinare le sinergie e le complementarità che derivano dalla diversità. Insomma il luogo comune che gli immigrati rubano il lavoro, prestazioni sanitarie, istruzione, non trova riscontro nei fatti; quando gli stranieri lavorano sono una risorsa.

«Ciò che minaccia la classe lavoratrice non è l’immigrato, sottolinea infine Massini, ma i padroni delle multinazionali che fanno di tutto per mettere i lavoratori gli uni contro gli altri, dividerli, isolarli, allo scopo di annullare le forme di resistenza e affermare il loro potere».


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